Qui si cura la libertà



Tutti lo chiamano “carcere”, ma in realtà si tratta di una casa circondariale. I detenuti previsti erano 244, oggi sono 330. Siamo andati a “visitare” la struttura di Spini di Gardolo. Tante le attività svolte all’interno, anche per conto di committenti esterni. E poi abbiamo parlato con alcuni detenuti, registrandone ricordi, speranze e recriminazioni...

Più che privare della libertà, il carcere la congela, la custodisce come si fa con una cosa preziosa. Ma la nostra visita ci ha fatto balenare nella mente un’altra immagine suggestiva: quella di un’incubatrice. Come se la libertà di chi ha commesso un crimine fosse una sorta di nascita prematura che necessità. Oppure un malanno che va debellato quanto prima.
Intanto cominciamo col dire che quello di Spini, se genericamente è usuale chiamare “carcere”, è in realtà una casa circondariale, cioè un carcere giudiziario e non una casa di reclusione. Insomma, vi sono detenute solo le persone in attesa di giudizio e quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni (o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni). Fine della lezioncina etimologica.
Siamo a Spini di Gardolo, una zona industriale zeppa di capannoni, camion, uffici e officine varie. Sì, un mezzo carcere pure questo, ma a frequenza volontaria. La nostra meta è una costruzione squadrata posta in fondo ad un lungo viale. La prima cosa che salta all’occhio è che non si vedono sbarre; quelle sono tutte all’interno: una piccola ipocrisia architettonica al servizio del politicamente corretto? Forse. Ma ad una prima distratta occhiata non si vedono nemmeno torrette di guardia o filo spinato. Sì, la Casa Circondariale pare proprio l’ennesima azienda dell’aziendopoli posta a nord del capoluogo. Tutt’altra cosa rispetto al vecchio carceraccio di via Pilati: lì le sbarre si vedevano eccome, e pure i detenuti, assieme a tutte le leggende che giravano su quel luogo, docce di acqua fredda comprese...


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