L’Italia latitante tra le rovine “redente”

Con l’armistizio del 3 novembre 1918, per più della metà degli oltre due milioni di militari italiani vi fu il “rompete le righe”. Entro la fine del 1918 sarebbero stati congedati un milione e 400mila soldati.
Riposte le armi, l’esercito fu subito impegnato nel soccorso e nella ricostruzione delle terre “redente”, mentre a Parigi, il 18 gennaio 1919, si apriva la Conferenza di pace. Poiché l’Austria si era dissolta e il grande impero danubiano si era rimpicciolito in una Repubblica di appena sei milioni di abitanti, la responsabilità di aver scatenato l’Armageddon e il pagamento degli ingentissimi danni di guerra furono caricati sulle spalle della Germania con la quale la Francia vantava un vecchio credito. La sconfitta di Sedan, nella guerra Franco-Prussiana del 1870, bruciava ancora. L’Alsazia e la Lorena, cedute mezzo secolo prima, tornarono a Parigi.
Per quanto ci riguarda, fino al trattato di Saint-Germain (10 settembre 1919), che regolava la ripartizione degli ex territori della corona di Vienna, il Trentino-Alto Adige sarebbe rimasto una regione “occupata” dal Regio esercito e non “annessa” al Regno d’Italia. Per tale ragione e per quasi un anno la regione ebbe un governatore militare (Pecori-Giraldi).
Per prima cosa, gli occupanti furono impegnati a ricostruire i ponti fatti saltare e le strade interrotte dalle frane. Poi, nei villaggi e nei centri devastati dalla guerra si cominciò a predisporre le baracche per gli sfollati che tornavano a casa.
La Grande Guerra era costata all’Italia un’ingente somma di denaro: 148 miliardi di lire, pari al doppio delle spese sostenute dai governi italiani dal 1861 al 1913. Poiché l’Italia era stata l’unico Paese belligerante a non aver aumentato la pressione fiscale durante la guerra, questa scelta aveva portato a un enorme deficit nel bilancio pubblico. Dal 1916 al 1919, il debito con l’estero era cresciuto di otto volte, mentre la spesa pubblica era lievitata al passo con l’inflazione.
È anche questa una delle ragioni, non l’unica, della lentezza dei finanziamenti per la ricostruzione delle province “redente”.
In Trentino, l’attesa delusa si trasformò in rabbia. Difatti, nell’estate del 1919, otto mesi dopo l’occupazione italiana del Sudtirolo, il Trentino era, per larga parte, “ancora in condizioni molto penose”. Nelle valli, soprattutto.



A giudizio di Ottone Brentari (1852-1921), giornalista e uomo di cultura, irredentista e tra i propugnatori dell’intervento contro l’Austria, quello stato pietoso della regione andava attribuito alla “lunghezza interminabile della Conferenza di Parigi”. A causa delle lungaggini diplomatiche, in Trentino tutto era provvisorio.
“Non si può fare di più sino a che non sia venuto il giorno della definitiva annessione”. Poiché in Italia “il pubblico è distratto e trascura di pensare a tanti fratelli che vivono nel dolore”, Ottone Brentari stampò un dossier, il condensato di un’inchiesta, nelle città e nelle valli del Trentino, compiuta nella primavera del 1919 per conto della Lega Nazionale Italiana di Milano. La definì una “missione di patriottica pietà” per “convincere [gli italiani] che il Trentino dalla guerra è stato massacrato molto di più che l’Italia non sappia e non creda, e voglio anche dimostrare che il Governo ed il popolo [italiano] per il Trentino hanno fatto troppo poco, e quel poco non è stato fatto molto bene”.
L’interventista Ottone Brentari dichiarò che voleva astenersi dal fare “un processo alla guerra ed al modo in cui essa fu condotta”. Si limitò a rilevare i danni immensi e a spiegare “che cosa era il Trentino prima del 1915, come fu ridotto in quattro anni di guerra, e che cosa si è fatto o non fatto per avviarlo verso il suo Risorgimento, e quali i doveri del popolo italiano verso quella povera terra redenta ma in gran parte rovinata, e che somiglia a un uomo liberato dalla schiavitù, ma lasciato a terra colle braccia paralizzate e colle gambe fratturate”.
Pur ammettendo che non tutte le colpe erano ascrivibili al Governo italiano, Ottone Brentari spiegava: “Il Trentino non è “una provincia invasa e devastata”; perché il Trentino non è “provincia italiana”, ma semplicemente un “terreno occupato”; e perciò il Trentino non ha neppure il conforto delle promesse che si vanno facendo al Veneto. Fino a quando?”
Sulla stessa lunghezza d’onda pure un altro fuoriuscito, il roveretano Mariano Vittori, il quale pubblicò alcuni articoli per denunciare il totale abbandono della sua città di origine. Nel 1919 diede alle stampe un testo dal titolo “Il martirio di Rovereto e dei suoi distretti”, a cura del Circolo Trentino [di Verona] e dei Profughi Roveretani [in Italia]. Con quell’opuscolo, Vittori intendeva sollecitare il Governo italiano a provvedere con rapidità per alleviare i disagi di una popolazione stremata dopo quattro anni di guerra.
Gli Irredentisti, riparati in Italia prima dello scoppio del conflitto con l’Austria-Ungheria, chiedevano, inascoltati, “che i migliori patrioti trentini fossero richiamati nella regione e che ad essi fosse affidata l’ardua mansione di ricostruire”.
Dalle pagine di Mariano Vittori traspariva una cocente delusione:
“Attualmente [febbraio 1919] nel Trentino è rimasta solo quella parte della popolazione la quale non poté nemmeno, di fronte ad una violenta persecuzione, abbandonare la propria casa. Questo residuo è composto in massima parte di poveri contadini suggestionati dai preti, ultra austriacanti, creature del Seminario Tridentino, e in più esigua quantità da piccoli borghesi, vecchi, donne, fanciulli, atterriti da un regime spaventoso, orbati dei mariti e dei padri, morti o morituri nelle trincee galiziane, lì dove gli Asburgo hanno scavato la fossa dell’italianità irredenta. […] Si arrestarono e internarono tutti quei cittadini su cui gravasse il più tenue sospetto di italianità; si incarcerarono e si deportarono vecchi e vecchie più che ottantenni; si sparsero notizie al fine di oscurare vendette e rappresaglie”.

Poiché il 25 gennaio 1919, quaranta giorni dopo l’occupazione del Trentino da parte delle truppe italiane, nulla era stato ancora fatto, Mariano Vittori suggeriva al Governo di Roma i provvedimenti da prendere immediatamente, per non incorrere “in una catastrofe materiale e politica”.
L’articolista-irredentista proponeva, tra l’altro, “l’affidamento delle nuove terre [redente] all’amministrazione civile poiché, dal 4 novembre 1918, Trento e Trieste erano sotto la gestione di un Governatorato militare”. Inoltre, era urgente “chiamar nel Trentino i trentini realmente affermativi e a loro affidare le mansioni più delicate”. Si imponeva poi una “sollecita e decisa” epurazione del personale [già operante sotto l’Austria] nelle amministrazioni dello Stato “specialmente nella magistratura e nell’insegnamento”. Inoltre, il Governo avrebbe dovuto “accordare ai rimpatriati un anticipo [di denaro] che potrà esser rivalso sul risarcimento finale dei danni di guerra”.
In tal modo si sarebbe messa “la cittadinanza delle regioni devastate e saccheggiate nella condizione di iniziare l’opera di ricostruzione; ciò con enorme vantaggio anche dello Stato”.
Prima della guerra, Rovereto aveva 11.618 abitanti e 854 case.
Scriveva ancora Vittori:

“Oggi [dopo tre mesi dopo l’armistizio] sono quasi tutte almeno lesionate e tutte, compresi gli stabilimenti industriali, interamente spogliate di attrezzi, di mobili, di metalli, perfino di porte e finestre. Il saccheggio ha lasciato all’elegante cittadina solo que’ muri che non furono percossi dalle cannonate. […] Nessuna città del Trentino, e ben poche del Veneto, sofferse la decima parte di quello che ha sofferto e soffre Rovereto; e finora per Rovereto e per i suoi Distretti non si è fatto nulla”.

In una prima corrispondenza del 25 gennaio 1919, Mariano Vittori aveva scritto:

“Rovereto è schiantata anche più di quanto può apparire alla rapida visione e i suoi dodicimila abitanti e i ben quarantamila dei suoi distretti, rientrano, pallidi di sofferenza e fidenti di rinascita, in un flusso continuo. Oggi sono settemila i rimpatriati, domani saranno di più. Vengono dal Regno [d’Italia] o dalle nebbiose nostalgie di Katzenau, di Braunau, di Mitterndorf […] Nulla rimane di Rovereto, nulla, eccetto i muri crollati: questo deve sapere il paese e il Governo”.
Un governo che “non manda né denari né acconti; i sussidi non vengono, i soccorsi mancano e i profughi (e chi non si agiterebbe) protestano”.

Parole di un irredentista convinto. Dello stesso tenore, sia pure con altro stile, gli interventi di Ottone Brentari sulla stampa milanese:



“I decreti Luogotenenziali 16 dicembre 1918 e 3 gennaio 1919 sui risarcimenti dei danni furono dichiarati applicabili anche alle terre redente. Ma con tante clausole, riserve e complicazioni da far perdere la testa e la pazienza anche al più calmo dei pacificissimi trentini. L’accertamento avrebbe dovuto esser fatto direttamente dal Governo, e su tale accertamento si sarebbe dovuto dare un anticipo, per rendere possibile la rianimazione della vita civile. Col solito pretesto che si tratta non di terreno [territorio] annesso, ma semplicemente di terreno occupato, non si fece una cosa né l’altra [...] Si deve poi anche osservare che la domanda per l’accertamento dei danni deve venire diretta al Giudice distrettuale, e che i Giudizi distrettuali (perché non furono riattate le loro sedi) non funzionano ancora a Pieve di Ledro, a Condino, a Strigno, a Mori, cioè proprio nelle località dove più sarebbero necessari. Così, privi di mezzi, i proprietari di terreni non possono rianimare i loro campi e gli industriali devono lasciare nell’inerte rovina le loro officine”.

Pure Oreste Ferrari, intellettuale liberale, nato nel 1890 a Locca in Val di Ledro, dedicò vari articoli ai problemi del primo dopoguerra nel Trentino “redento”. Fervente interventista, era espatriato clandestinamente il 2 dicembre 1914. A Milano (gennaio 1915) fu tra i fondatori del giornale “L’Italia irredenta”.
Volontario di guerra, rimase ferito al fronte. Tornato a Milano, si impegnò quale redattore della “Libertà”, settimanale dei Trentini fuoriusciti, fondato nel mese di febbraio del 1917. Con l’occupazione del Trentino da parte degli Italiani, “La Libertà” divenne il quotidiano liberale di Trento.
I venti resoconti di Oreste Ferrari furono pubblicati sul giornale a cominciare da metà maggio del 1919. Scriveva:

“Se almeno per ogni paese si fosse, fin dal primo ritorno dei profughi, nominati dei fiduciari o delle persone investite di una funzione analoga, molti inconvenienti si sarebbero evitati. Soltanto persone del luogo potevano illuminare e indirizzare circa certi bisogni e certe opportunità più urgenti e stringenti. Nessuno è stato chiamato a dire il suo parere”.

Nella primavera del 1919, con l’aiuto di quaranta ingegneri civili, il Consiglio Provinciale dell’Agricoltura di Trento compì una ricognizione generale per quantificare i danni di guerra in Trentino e nell’Ampezzano.
Dei 373 comuni del Trentino, quelli danneggiati risultarono 92, “e poiché molti di essi, specialmente nelle valli del Leno e sugli altipiani, sono formati di vari paeselli, così si può affermare che i paesi danneggiati in tutto o in parte sono non meno di 150”. Il danno subito dai comuni non evacuati fu calcolato in 531 milioni di lire. Nei paesi del Trentino meridionale e nelle Giudicarie (distretti di Rovereto, Borgo Valsugana, Riva e Tione), compresi nella “zona nera”, i danni ammontavano a 995 milioni di lire; quelli dell’Ampezzano a 45 milioni di lire, per un totale di 1 miliardo e 531 milioni di lire.
“Come può risorgere un Paese così dissanguato e massacrato se non si verrà largamente e prestamente in suo soccorso?”, si chiedeva Ottone Brentari. “Da ben sette mesi si attende la pace, e intanto il Trentino geme dovendo sopportare tutti i danni della guerra”.
Il cambio delle corone in lire italiane fu una beffa ulteriore poiché la corona austriaca, denaro corrente anche in Trentino, fu valutata appena 40 centesimi contro la lira. Con una simile svalutazione gli “occupanti” italiani impoverirono il già misero Trentino. Da qui l’amara constatazione: “Trento, redento al 40 per cento”.
Non tutti, in verità, restarono poveri. Coloro i quali, appena arrivati gli Italiani, cambiarono alla pari le corone in lire si trovarono in tasca un discreto gruzzolo. L’ordinanza del Comando Supremo sul cambio corona-lira fu adottata solo il 15 novembre 1918. In tal modo, scriveva Brentari “gli ingrassatisi durante la guerra, ebbero tutto il tempo di trasformare le corone in lire”.
Gli unici svelti di mano e di ingegno furono gli esercenti i quali, appena arrivati gli Italiani “si affrettarono a far pagare cinque corone l’oggetto che fino allora ne valeva due”. Un po’ come sarebbe accaduto ottant’anni dopo, il 1° gennaio 2002, in Italia, con il cambio della lira in Euro. Il giorno seguente, un caffè, del valore di 800 lire, al bar sarebbe stato pagato a 80 centesimi di euro, un prezzo più che doppio di quanto costava fino la sera prima.
In verità, fin dal 6 novembre 1918, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Diaz, aveva diramato un ordine: “Nei territori del Regno dichiarato in stato di guerra e nei territori occupati oltre confine è vietata l’incetta della valuta austro-ungarica, nonché qualsiasi forma di commercio della valuta italiana con valuta austro-ungarica”. I trasgressori sarebbero stati puniti “col carcere militare”.
A tale proposito, può essere interessante un raffronto fra i prezzi praticati a Trento prima e dopo la Grande Guerra: il pane, che nel 1914 costava 8 centesimi di corona, nel 1918 passò a 30 centesimi; il manzo da 2 a 15 corone al chilo; il vitello da 1,60 a 18 corone al chilo; il capretto da 0,80 a 16 corone; la legna da 2 a 20 corone al quintale; l’insalata da 7 centesimi a 2 corone al chilo; il sapone da 20 centesimi a 5 corone il pezzo; un pennino da calamaio passò da 2 a 20 centesimi; un paio di scarpe da 25 a 100 corone; gli zolfanelli passarono da 14 centesimi per dieci scatole a 25 centesimi la scatola.
Il rincaro fu dettato dall’inflazione e pure “dall’esosità degli esercenti che perdettero ogni senso della misura”. Inoltre, Ottone Brentari faceva notare che “quando il Trentino passerà dalla condizione di occupato a quella di annesso, sarà chiamato a dare il proprio contributo al pagamento delle immense spese della guerra italiana. E non è giusto che esso, dopo tanti danni subiti nelle sue sostanze durante la lunga guerra, abbia a portare da solo il grave peso del deprezzamento della corona e le conseguenze della disfatta dell’Austria stessa”.
La protesta fu corale e lo scoramento fu palpabile perfino tra gli Irredentisti.
Non potendo chiudere la stalla quando i buoi erano già scappati, l’autorità militare di occupazione strinse ulteriormente le maglie della censura. I due giornali che si stampavano a Trento, Libertà e Nuovo Trentino, furono costretti a togliere o cestinare tutte le lettere di critica da parte dei lettori.
Il disagio e la disapprovazione furono incanalati dal “Fascio per la rinascita di Rovereto e dei paesi evacuati del Distretto”. Tale istituzione convocò a Trento i rappresentanti di tutti i comuni del Tirolo italiano, i quali, con voto unanime, decisero l’invio a Roma di una delegazione per “illustrare il danno che deriva al Paese dalla disposizione governativa e la responsabilità che assumerebbe il Governo se non avesse perlomeno decretato la parificazione fra corona e lira per tutti rapporti di credito anteriori allo scoppio della guerra”.

Intanto, liberati migliaia di prigionieri austro-ungarici, dal 15 novembre 1918 prese il via il rientro in Trentino dei profughi “internati nelle province austriache e degli abitanti di comuni vicini alla zona di operazione che, per ragioni militari, erano stati evacuati”.
Alla fine di marzo del 1919, ma il dato va preso con le molle perché appare gonfiato rispetto a successive verifiche, erano rimpatriate in Trentino – lo scriveva Ottone Brentari – 126.300 delle 148.710 persone evacuate. Prima della guerra, la popolazione del Tirolo italiano era di 386.438 unità.
Coloro che tornavano a casa erano concentrati a Trento, in attesa di “smistamento nelle zone abitabili” poiché “era impossibile far proseguire subito i profughi per i loro paesi, visto che molti mancavano assolutamente di locali abitabili”.
Numerosi furono ospitati per alcuni mesi nelle colonie di Trento, Rovereto, Sacco, Riva, Tione, Borgo. Nel frattempo erano assistiti dal “Comitato Provvisorio dei Profughi Trentini”.
Nella caserma Perini, a Trento, fu dato alloggio temporaneo a oltre tremila profughi, la maggior parte di Marco, Mori e Brentonico. Altri collegi-convitto erano stati individuati nell’asilo Zanella, nell’ex istituto dei Cappuccini (uomini e donne delle Case di Ricovero, orfanotrofio per 131 fra maschi e femmine, una casa per le partorienti).
I profughi della Val di Ledro furono trattenuti nella Colonia di Riva del Garda.
Cucine economiche, con la distribuzione di centinaia di pasti giornalieri, furono allestite a Trento, Rovereto, Borgo e Riva del Garda, Arco e Mori. Per la maggior parte erano gestite dall’Opera Bonomelli, un’associazione di soccorso religioso-sociale, inizialmente destinata agli emigranti, fondata nel 1900 dal vescovo di Cremona Geremia Bonomelli (1831-1914).
Nell’estate del 1919, la maggior parte della popolazione deportata in Austria, Moravia e Boemia era rientrata nei paesi d’origine. In quei mesi tornarono a casa, alla spicciolata, anche i profughi dispersi in 264 comuni italiani.
Gli uni e gli altri, alcuni perfino di una stessa famiglia, divisi dalla guerra, trovarono abitazioni distrutte, stalle sbrecciate, campagne minate o trasformate in mille cimiteri improvvisati.
Con l’appello “Italiani, soccorrete il Trentino”! Ottone Brentari ammoniva:



“Non dimentichiamo che il Trentino, per venire liberato, ha dovuto anche venire in gran parte massacrato; e ad alleviare quel massacro dobbiamo esser specialmente noi che abbiamo voluto la guerra, e che mai ci pentiremo di averla voluta, anche se essa, non certamente per colpa nostra, ci è stata causa di così gravi delusioni, ed è risultata, per colpa dei falsi mercanti di umanitarismo, non lotta di alte idee ma gara di bassi interessi”.
Poiché nei paesi devastati mancava tutto, dal vestiario alla biancheria, dagli utensili domestici alle attrezzature contadine, l’appello sollecitava gli Italiani a inviare qualsiasi oggetto: “Un cucchiaio, una camicia, un lenzuolo, un martello valgono per il momento più di dieci opuscoli di propaganda o di venti discorsi”.
Servivano, infatti, coperte e lenzuola, camicie e mutande, calze e calzature, corredi per neonati; pentole, paioli, forchette, coltelli, secchi e cucchiai. Mancavano pure: scuri, roncole, martelli e tenaglie.
A Trento fu formato un “Comitato di assistenza civile” con lo scopo di gestire e distribuire le offerte che arrivavano dall’Italia, soprattutto fra le popolazioni del Trentino meridionale.
Per prima cosa il Comitato si rivolse agli stessi Trentini:

“Migliaia dei nostri conterranei tornano alle loro case dal confinamento, dall’internamento, dal carcere di cui fu prodigo il Governo austriaco con chi aveva cuore e anima italiana, e trovano le sole rovine delle loro case; e chi trova l’abitazione non trova né mobili, né suppellettili, né panni. Occorrono aiuti: chi più presto li dà è come desse il doppio. Ora è il momento anche per voi, Trentini, di dimostrare l’amore alla vostra terra ed alla patria comune. Aiutate, date, affinché il vostro obolo si aggiunga a quello generosamente elargito da parecchie città consorelle e, magnanimamente, dalla Nazione”.

Di fronte ai disagi, allo scoramento per una gestione dell’emergenza impastoiata dalla burocrazia e da lentezze più borboniche che sabaude, i fuoriusciti nel Regno paventavano il pericolo di una rivolta della popolazione trentina nei confronti dei “conquistatori” italiani. Ottone Brentari ne era ben consapevole. A più riprese sollecitò un cambio di rotta alle autorità di occupazione.
Scriveva: “Si deve ricordare che l’Austria, se nel campo politico era tutto quello di esecrando che si possa figurare, e il suo maledetto dominio del tutto intollerabile, nel campo amministrativo poteva, in moltissimi casi, servire da modello, e sotto tale aspetto sarebbe bene non annettere il Trentino all’Italia, ma annettere l’Italia al Trentino, perché se l’Italia ha politicamente redento il Trentino, il Trentino potrebbe, sotto molti altri aspetti, redimere l’Italia”.
(16. continua)