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I RAGAZZI DI VIA RASELLA

IL 23 MARZO 1944 ESPLODE LA BOMBA CHE, UCCIDENDO 33 MILITARI ALTOATESINI, CONDURRÀ ALLA TRAGICA RAPPRESAGLIA DELLE FOSSE ARDEATINE E AD UNA GENERALE RECRUDESCENZA DELLA REPRESSIONE NAZISTA. UN CASO ANCORA APERTO, 75 ANNI DOPO. NON SOLO PERCHÉ QUEI CONTADINI E ARTIGIANI DELLE VALLATE SUDTIROLESI, ARRUOLATI A FORZA, CONTINUANO ERRONEAMENTE AD ESSERE DEFINITI “TEDESCHI” E MEMBRI DELLE SS. MA PERCHÉ RITENUTI RESPONSABILI DELL’ECCIDIO IN CUI PERIRANNO 335 PERSONE. UNA DAMNATIO MEMORIAE CHE PARE CONDANNARLI PER SEMPRE AL SILENZIO E, ALCUNI DI LORO, ANCHE AD UNA SEPOLTURA INDEGNA. UNA FERITA APERTA NELLA MEMORIA STORICA DELLA NAZIONE, MA QUEI 33 RAGAZZI, A QUESTO PUNTO, AVREBBERO DIRITTO ALMENO AD UN PO’ DI VERITÀ E DI PACE

Mi aggiro nella pancia del Santuario di Pietralba, a due passi da Bolzano. Siamo quasi sul confine tra Alto Adige e Trentino. La stanza degli ex voto ha le pareti tappezzate di quadri e quadretti: santi, madonne, ma anche scene di incidenti, cadute, immagini di ammalati con le braccia fasciate o infilati in un letto, ritagli di cronaca nera e altro ancora. E poi stampelle, occhiali, caschi da motociclista. Un vero e proprio Sancta Sanctorum delle sfighe. Ad un certo punto, non so perché, vengo attirato da un quadretto contornato di nero che riporta un piccolo elenco di nomi e date di nascita. Sembra sottrarsi in qualche maniera alla logica degli altri ex voto. Voglio dire, solitamente si ringrazia il Cielo per una grazia ricevuta, per lo scampato pericolo. Questo quadretto, invece, riporta uno strano elenco di trentadue persone scomparse. Decedute a Roma, in via Rasella, il 23 marzo del 1944.
Via Rasella, ma certo, – adesso ricordo! – quella bomba che scatenò poi la rappresaglia orribile delle fosse Ardeatine. Ne ho sentito parlare. Di questa vicenda, in quel momento, so solo che i partigiani uccisero alcune SS tedesche, ma allora, perché qui, a Pietralba, questo quadretto? Per scoprirlo mi metto al lavoro, leggendo e interpellando chi ne sa più di me. Illuminante ed imprescindibile, in questo senso, il libro di Lorenzo Baratter, “Dall’Alpenvorland a via Rasella” (Publilux, 2003).
Vado perfino a Roma, in quella strada fatale, e a bocca aperta davanti ai muri ancora sbrecciati dopo tanti anni, respiro un’atmosfera pesante, piena di fantasmi e della flebile eco di urla disumane. Scrivo all’allora Governatore Luis Durnwalder, chiedendo di fare qualcosa per intaccare questa damnatio memoriae che sta condannando quei ragazzi altoatesini alla dimenticanza eterna. Non ricevo nessuna risposta.
Tuttavia non demordo e proseguo con le ricerche. Quel che segue è il mio modesto tentativo di ricostruire i fatti.
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Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’Italia “scarica” a sorpresa la Germania. Ma per i tedeschi quello dell’armistizio è solo il segreto di Pulcinella, anzi “Das pfeifen die Spatzen schon vom Dach”, come dicono loro. Così solo due giorni dopo viene costituita l’Alpenvorland, il Trentino e l’Alto Adige vengono in tutto e per tutto assoggettati al potere nazista. Tra le altre cose, si presenta la necessità di costituire dei corpi di polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico. Vengono all’uopo formati il Corpo di Sicurezza Trentino, il suo corrispondente altoatesino, il S.o.d., e i Polizeiregiment Italiani – almeno sulla carta – che combattono per i tedeschi.
Alcuni si arruolano perché convinti di evitare così di essere mandati al Fronte, altri perché sinceri sostenitori del nazismo, altri solamente perché costretti a prendere atto della propria volontarietà. Tanto è vero che la cartolina di richiamo si rivolge “An den Kriegsdienstplichtigen”: qualcosa come “All’obbligato al servizio di guerra”. Nel 1979, il quotidiano “Alto Adige” pubblica un inserto intitolato “Quelli di via Rasella”, che rompe un muro di silenzio lungo 35 anni. Josef Prader, reduce del III Battaglione del “Bozen”, racconta a Umberto Gandini: «Ci fecero firmare cartellini sui quali era scritto che eravamo volontari. Io dissi che, se volevano, potevano anche arruolarmi, ma non come volontario. Mi risposero che mi avrebbero definito come pareva a loro, e che se facevo tante storie, sarei finito in Russia. Ecco come eravamo volontari...».
Come racconta Lorenzo Baratter ne “Le Dolomiti del Terzo Reich” (Mursia, 2005), tanti militari hanno già prestato servizio molto tempo prima nell’esercito italiano. Emblematico il caso di Peter Putzer, di Varna. È stato artigliere da montagna sul Tonale, vent’anni prima. Durante l’addestramento a Gries muore sua figlia. Il comando gli nega la licenza per partecipare al funerale. Ma per alcuni le circostanze sono ancora più tremende. Lois Rauter è un contadino della Val Pusteria. Lui e sua moglie hanno due figli, Valentin e Heinrich, che sono minorati psichici. Come altre migliaia di sudtirolesi, viene chiamato a decidere se rimanere cittadino italiano oppure optare per la Germania. Viene convinto alla seconda scelta. Quello che non sa è che i suoi due poveri ragazzi verranno così avviati alla famigerata Aktion T4, il programma nazista di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva in Germania la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da portatori di handicap mentali. Vite che, secondo loro, erano indegne di essere vissute. Lois Rauter riceverà la notizia della morte dei due figli, poco prima di essere arruolato. In via Rasella perderà un braccio.
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L’undicesima compagnia del Polizeiregiment Bozen è formata da 156 uomini. Quasi tutti contadini, artigiani, pastori o mugnai delle valli dell’Alto Adige; hanno tra i 30 e i 40 anni e sono comandati dal sottotenente Walter Wolgasth, un prussiano tutto d’un pezzo, una vera carogna secondo i suoi soldati che gli affibbiano il nomignolo di “Vollgas”, Tuttogas, perché si diverte a farli schiattare di fatica. Il battaglione, invece, lo dirige un boemo, Johann “Hans” Dobek (conosciuto anche come Hellmuth Dobbrick). I posti di comando sono naturalmente preclusi agli altoatesini: per loro non rimane che il grado di Unterwachtmeister, il più basso della gerarchia della polizia d’ordine dopo quello di allievo.
Dobek e Tuttogas non hanno una grande opinione dei loro soldati; l’appellativo più gentile che riservano alla truppa è “Holzkoepfe”, teste di legno. Probabilmente non hanno digerito di essere stati assegnati a quel battaglione, a quelle schiene curve abituate a salire su per i sentieri della Val Venosta e dei passi dolomitici, a quella gente di montagna per natura così pacifica e poco incline alla marzialità militaresca. Anche per questo l’addestramento è particolarmente duro. Bolzano e poi Colle Isarco. E da sopportare non ci sono solo la disciplina e la fatica fisica, ma pure l’umiliazione psicologica messa in atto dai comandi. Il razzismo, insomma. “Traditori”, “maiali”, “bastardi” a ogni piè sospinto. A quelle reclute non viene perdonato il fatto di essere così poco tedesche, di non sapere addirittura, come nel caso dei ladini, parlare il tedesco.
Loro, le reclute, malsopportano. In fondo, a quanto ne possono sapere, tutto quello assomiglia tanto a un secondo servizio militare, fatto con una divisa diversa, per una nazione diversa, con tanto di giuramento che viene pronunciato il 28 gennaio. Pochi giorni dopo il Battaglione è trasferito a Roma, con mansioni di sorveglianza.
Per chi sperava di rimanere in Alto Adige non è certo una bella notizia. Anche perché Roma, in quei giorni, almeno in teoria, dovrebbe essere una “Città Aperta”, cioé immune ad ogni tipo di combattimento, ma di fatto è il teatro di un braccio di ferro tra i nazisti e le bande partigiane. La dichiarazione del 14 agosto 1943, infatti, non verrà di fatto mai riconosciuta dagli Alleati.
Di tanto in tanto, sui muri della città, compaiono alcuni manifesti tedeschi. Vi si può leggere una frase terribile, ma molto, molto chiara, che non può lasciare spazio agli equivoci: ogni aggressione contro i militari tedeschi da parte di civili sarà punita con dieci vittime italiane per ogni vittima tedesca. Non è una novità. Già tre volte – il 31 gennaio, il 2 febbraio e il 7 marzo, a Forte Bravetta – in seguito all’uccisione di soldati tedeschi sono stati giustiziati coplessivamente 31 italiani. Un memento che, come vedremo, non sortirà l’effetto voluto.
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Il futuro deputato comunista Giorgio Amendola è a capo dei Gruppi di Azione Patriottica nella capitale, i GAP, e li ha già incrociati questi militari un po’ curvi, così poco tedeschi, che cantano come deficienti per le strade di Roma. Sì, li ha visti anche in Piazza di Spagna, recandosi al nascondiglio di Alcide De Gasperi, nel palazzo della Propaganda Fidae. Amendola ordina ai GAP di studiare un piano per attaccare quella Compagnia: un bersaglio troppo facile per potervi rinunciare. Sono una dozzina i gappisti coinvolti, tra cui Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna e Carla Capponi.
La logorante guerra di posizione tra le truppe Alleate, sbarcate ad Anzio due mesi prima, e le forze tedesche al comando del feldmaresciallo Albert Kesselring è al suo culmine. Nessuno avanza verso nessun oltre. E Roma è come un gioiello conteso che abbaglia con crudele bellezza questi soldati dell’undicesima compagnia: valligiani che di tattica e strategia sanno ben poco. Per loro è già stato abbastanza traumatico passare dai prati della Val Badia, alla città dei Cesari. Però, in quei giorni, qualcosa riescono a notarla anche loro. Le guardie sono raddoppiate, le strade di Roma, al contrario degli altri giorni, sono praticamente vuote. Che il momento della liberazione della città sia sempre più vicino è un altro segreto di Pulcinella.
Eppure, senza consultare la Giunta militare della Resistenza e all’insaputa degli altri partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, il GAP dà avvio a quella che Norberto Bobbio definirà, nel 1984, “il più grosso errore della Resistenza”. Già, un errore. Non solo perché porterà alla tremenda carneficina delle Fosse Ardeatine, ma perché segnerà di lì in poi una recrudescenza nel sistema repressivo tedesco, un cambio di atteggiamento nei confronti delle popolazioni più indifese. Pensiamo alle stragi, Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, in primis. È lecito supporre che senza questo inutile attentato si sarebbero risparmiate migliaia di vite umane?
“Inutile”, certo. A che pro, infatti, uccidere soldati nemici con mansioni di sorveglianza, in una città che sta per essere liberata pacificamente, quando sai benissimo che per ogni avversario caduto, a dieci dei tuoi verrà chiesta la vita? Perché un’azione del genere quando il giorno prima, il 22 marzo, il direttore de “Il Messaggero”, Bruno Spampanato, scrive che il comando tedesco avrebbe ritirato a breve le sue truppe da Roma?!
Un’altra domanda senza risposta.
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Ci sono giorni che nascono già gonfi di presentimenti, pieni di segni; tanto che già al mattino ti convinci di aver capito cosa accadrà di lì fino a sera.
Il Polizeiregiment Bozen è acquartierato nelle soffitte del Viminale. Da lì, tutte le mattine, l’undicesima compagnia si reca marciando al Foro Mussolini, per svolgere le esercitazioni. Hans Dobek, al seguito in automobile, non si accontenta di esporre le “teste di legno” agli attacchi partigiani. Pretende che si facciano sentire, che cantino come tanti galletti pettoruti, che si mostrino entusiasti di servire il Reich. Come delle vere SS.
Il giorno in questione è il 23 marzo 1944. Ricorre il venticinquesimo della fondazione dei Fasci di Combattimento, antesignani del fascismo. In città è prevista una manifestazione. Il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini responsabile militare del PSIUP, morde il freno: vorrebbe concordare un’azione militare unitaria con i Gap. Si progetta di attaccare il corteo fascista in due punti diversi dai GAP e da una squadra delle Brigate Matteotti socialiste.
I nazisti sanno di questi propositi, così spostano la commemorazione fascista in un palazzo di Via Veneto, per motivi di sicurezza. Ciò nonostante, il battaglione degli altoatesini continua a essere esposto, passando rumorosamente per le vie del centro e, solo quel giorno, con i fucili carichi. Magari la sparo grossa, ma sembra quasi che vengano usati come una specie di esca. Ecco. L’ho detto...
Gli stessi gappisti devono averla notata questa strana aria di smobilitazione. Tant’è che le marce di quelli del Bozen si sono diradate… Il giorno 18 e il giorno 19 il plotone non si fa vedere. I dubbi serpeggiano nel gruppo di Calamandrei e degli altri. Il 20 eccoli di nuovo. Allora, progettano di agire il giorno seguente. Ma c’è un intoppo. Il 21 l’esplosivo non è pronto. E il 22 gli uomini di Dobek latitano nuovamente. I gappisti temono che non se ne faccia più nulla. In fondo Roma sta per essere evacuata. Gli americani sono alle porte della città. Eccetera.
Ed invece.
Il 23 marzo, l’undicesima compagnia si avvicina a Via Rasella. È strano, ma pure quel cagnaccio di Dobek, questo pomeriggio, non sembra più lo stesso. È agitato, continua a fare su e giù con l’automobile. E urla: “Ein Lied! Ein Leid, Schweine!”. E loro obbediscono, e vai con quell’odiosa canzoncina. “Hupf, mein Mädel”, Salta, bella mia… È ridicolo cantare motivi tanto allegri con le granate agganciate alla cintura, col pericolo di attentati, in un mondo impazzito.
Il compito di far brillare l’ordigno viene assegnato a Bentivegna, travestito da spazzino. Poco distante da lui, Carla Capponi, con un impermeabile da gettargli addosso, dopo lo scoppio. I due si sposeranno sei mesi dopo.
I gappisti devono attendere circa due ore in più rispetto alla consueta ora di transito della compagnia in via Rasella; il giovedì 23 marzo 1944 i soldati del “Bozen”, sono partiti in ritardo dopo l’esercitazione di tiro effettuata al poligono di Tor di Quinto e solo alle 15.45 la colonna sbuca da Largo Tritone e gira verso via Rasella. I plotoni sono quattro, uno in fila all’altro. Stranamente tutti i sottufficiali, e anche Wolgatsh e gli altri, sono stati chiamati a rapporto in cima al corteo. Sono due ore di ritardo che potrebbero portare all’annullamento dell’operazione. I negozi stanno per riaprire e le vie si stanno animando di passanti. Anche alcuni bambini si sono messi in coda al plotone scimmiottando la marcia dei soldati. E poi Bentivegna ha quasi finito il tabacco nella pipa, per l’accensione della miccia. Tanto è vero che, alle tre e mezza, Pasquale Balsamo gli passa vicino e gli dice: “Guarda che se alle quattro non sono venuti ti pigli il carrettino e ce ne andiamo”.
Un quarto d’ora dopo, la bomba esplode mentre è appena transitato il secondo plotone. Dodici chili di tritolo pressati in un contenitore di ghisa, a cui sono stati aggiunti sei chili di esplosivo e pezzi sfusi di ferro. L’onda d’urto è devastante. Vengono scardinate porte e finestre, un autobus viene scaraventato contro la cancellata di palazzo Barberini.
Dopo lo scoppio, i gappisti lanciano anche quattro bombe a mano.
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Ad essere onesti, non ne ricordo più la fonte. È un aneddoto che ho letto durante le mie ricerche per “Caro Alcide”, la biografia romanzata che ho scritto sullo statista trentino nel 2003. L’aneddoto è questo: al momento della detonazione, Alcide De Gasperi è in compagnia di Giorgio Amendola. L’esplosione fa tremare i vetri, così questi dice al trentino: “Sentito che botto?!”. Degasperi risponde: “Eh, voi comunisti, una ne pensate e cento ne fate”. Un dialogo strano. Quasi divertito. Nemmeno fosse scoppiato un mortaretto di San Silvestro o poco più.
A poche centinaia di metri, in Via Rasella, di divertente non c’è proprio nulla. A terra rimangono tra i 22 e i 26 uomini, alcuni dei quali orrendamente mutilati. Altri moriranno nelle ore successive. Molti dei superstiti porteranno i segni di quello scoppio per tutto il resto della loro vita.
Ci sono anche morti civili, “effetti collaterali” li chiameremmo oggi. Tra loro il dodicenne Piero Zuccheretti. Quel giorno, sta andando al lavoro in una bottega di ottica e da Piazza Barberini viene attirato da quella canzone sguaiata. Il suo povero corpo verrà completamente smembrato dall’esplosione. I piedi non verranno mai ritrovati. (Si badi: non è per morbosità giornalistica che mi soffermo sui particolari della sua fine, ma solo perché, a mio avviso, lui è l’emblema dell’assurdità di questo attentato). Il resto della compagnia sbanda. Com’è comprensibile c’è una gran confusione, urla, sangue, panico, paura. Anche perché non c’è un nemico contro il quale aprire il fuoco. Il nemico è nascosto, fuggito, volatilizzato. Ha tirato il sasso, ha nascosto la mano e ora probabilmente è in piazza Vittorio a festeggiare il successo dell’operazione e la propria incolumità.
I poliziotti altoatesini superstiti allora dirigono l’attenzione verso l’alto, alle finestre dei palazzi di Via Rasella. La bomba deve essere arrivata da lì. Non c’è altra spiegazione. Un vecchio affacciatosi viene freddato da un militare. Dobek è sconvolto, corre fra i corpi smembrati e quelli dei feriti urlando come un pazzo: “Correte, maiali, correte!”. Sul posto giungono immediatamente il questore Pietro Caruso, il generale Kurt Mälzer, comandante militare di Roma, il diplomatico Eugen Dollmann e, insieme in automobile, il console Eitel Friedrich Moellhausen e il ministro dell’Interno della RSI Guido Buffarini Guidi, raggiunti in un secondo momento dal comandante delle SS Herbert Kappler.
Mälzer è furibondo (e, secondo le memorie di Moelhausen, ubriaco fradicio), ordina di portare dell’esplosivo e di far saltare in aria tutti gli edifici dell’isolato tra via Rasella e via delle Quattro Fontane. Solo Kappler riesce a farlo desistere da questo suo apocalittico proposito di vendetta.
Arrivano uomini del Battaglione “Barbarigo” della Xª Flottiglia MAS che, con i superstiti del Bozen, rastrellano la popolazione residente, trasferendola poi nelle cantine del Viminale. Ricordate? “Dieci vittime italiane per ogni vittima tedesca”. Dei rastrellati nella zona dell’attentato, circa 300 persone, dieci saranno tra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine.
Al contrario del comandante Mälzer, il tenente Wolgasth, mantiene una calma tanto olimpica quanto disumana. Aiuta educatamente i feriti a salire sulle ambulanze. In ospedale vorrà sincerarsi delle condizioni di tutti i ricoverati, facendo loro perfino un regalo, un dono da vera superstar nazista: una sua foto con dedica.
Sembra finita, ma non è così. Alla sera, Dobek irrompe come una furia nelle camerate del Viminale. Vuole che siano quegli stessi “maiali” a vendicare i compagni ammazzati dai terroristi. Urla, si sbraccia, scalpita come un cavallo. Nessuno fiata. C’è troppo dolore in quella soffitta. Dolore per i compagni morti e, più che mai, nostalgia di casa. I soldati rifiutano di eseguire l’ordine. Franz, Peter, Toni e gli altri sono cattolici. Proprio loro dovrebbero farlo? Loro che quando stavano a Bolzano e venivano trovati nelle chiese erano obbligati a tornare in caserma sulle ginocchia?
Nessuno di loro prenderà parte all’eccidio. Eppure un memoriale consegnato alla Conferenza di Pace di Parigi, febbraio 1946, lo afferma esplicitamente. Ma non è tutto. Si parla di loro anche come responsabili dei rastrellamenti del 18 ottobre 1943, quando un migliaio di ebrei romani vennero avviati ai campi di sterminio. Un errore grossolano. In ottobre gli uomini di quel battaglione erano già da tempo nella caserma di Gries. Un errore che, pur appurato dagli storici, non è mai stato ufficialmente smentito.
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Negli anni del dopoguerra, su questa vicenda ci saranno polemiche e processi a non finire. Strascichi inevitabili. A partire dal 25 marzo 1944, quando al cimitero militare germanico di Pomezia, si tengono i funerali. I soldati caduti in Via Rasella trovano sepoltura in un prato lontano da casa. Trenta superstiti disertano e tornano a casa, in Alto Adige. Vengono denunciati e inquadrati in compagnie punitive, inviati al fronte orientale da cui non faranno più ritorno.
Poi silenzio assoluto.
Nel 1951, su proposta di Alcide De Gasperi, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi conferisce a Rosario Bentivegna la medaglia d’argento al valor militare. Negli anni Sessanta l’antifascismo militante riscrive alcuni particolari della nostra storia patria. Mussolini non godeva di alcun consenso, le foibe sono un’invenzione e quelli di Via Rasella non erano poco più che vigili urbani bensì delle feroci SS senz’anima. Fino a che, nel 1979, Umberto Gandini rompe l’incantesimo con quella famosa inchiesta, da cui emergono elementi nuovi. La sostanziale estraneità degli uomini attaccati in via Rasella alle SS, l’arruolamento forzato, la devozione cattolica e lontananza dal modello del soldato nazista, nonché i particolari della mancata partecipazione alla strage delle Fosse Ardeatine. Circa la sorte dei caduti, Gandini commenta: «Una volta premesso che nessun uomo merita di morire, ed accettata quindi solo per momentanea esigenza dialettica l’orribile logica che regola le vicende di guerra, si può dire che quel giorno di marzo, in via Rasella, morirono i soldati tedeschi meno tedeschi di tutti quelli che imperversavano in quegli anni per l’Europa; e i soldati tedeschi che meno di tutti “meritavano” quella fine, perché non avevano fatto assolutamente niente di male, non erano stati nemmeno messi nella condizione di poter fare del male».
Tante le cause civili intentate contro Bentivegna e gli altri in questi ultimi decenni. Tutte respinte. Con l’ordinanza del 16 aprile 1998, il giudice per le indagini preliminari di Roma dispone l’archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, iniziato a seguito di una denuncia presentata da alcuni parenti delle vittime civili dell’attacco. Il Giudice esclude la qualificazione dell’atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l’estinzione del reato a seguito dell’amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi “per motivi di guerra”. In seguito, la Corte di Cassazione continua (2007-2009) ad accogliere con regolarità disarmante i ricorsi e le richieste danni avanzati dalla figlia di Bentivegna e della Capponi, ribadendo che quello di via Rasella fu “legittimo atto di guerra contro il nemico occupante”. Ma non possono esistere, secondo il mio modesto parere, “atti di guerra” che possano considerarsi legittimi. Non ci sono vittime e carnefici in una storia come questa, ma solo vittime. Lev Tolstoj ha scritto che la pietà è una delle più preziose facoltà dell’anima umana. Eppure ad oggi, ventisei dei trentatré caduti di quella undicesima compagnia sono ancora sepolti anonimamente a Pomezia. Nessuno, né parenti né autorità politiche locali, dopo settantacinque anni, ha ancora chiesto di poterli riportare nella loro terra d’origine: l’Alto Adige - Südtirol.
“Sarà lecito almeno dire, – scrive ancora Bobbio – senza timore di essere accusati di essere fascisti o amici dei fascisti, che quei soldati morti in quell’agguato erano soggettivamente innocenti?” Da 75 anni si attende invano una risposta. ν