TrentinoMese - Appuntamenti, incontri e attualità trentina - magazine trentino

LA TANA DEI PAPÀ

LA SCOMMESSA DI PUNTARE SUI PAPÀ È UN SUCCESSO: ATTIVITÀ, LABORATORI ED USCITE PER PASSARE MOMENTI PARTICOLARI CON I PROPRI FIGLI E CON ALTRI PADRI, DOVE LE MAMME NON SONO AMMESSE

Egon Angeli, roveretano classe 1981, è il presidente di Energie Alternative, un’associazione molto attiva nella Vallagarina nel proporre momenti ludico didattici, di promozione sportiva e sociale, su sani stili di vita per bambini e famiglie. Ci incontriamo per una chiacchierata sul nuovo progetto “La Tana dei papà”, nato per dar spazio al rapporto tra padri e figli.
“Tutto è iniziato dalla lettura online dell’esperienza di un organizzatore del Camping dei papà di Bolzano. Come Associazione, avendo già alle spalle l’esperienza dei camp estivi, abbiamo voluto promuovere una “tendata” per papà e figli, per stimolare nei padri una riflessione sul proprio modo di vivere la genitorialità e un’occasione per passare del tempo libero e liberamente con i propri figli. Alla fine dell’esperienza abbiamo riscontrato le stesse osservazioni che avevamo letto nell’articolo. Ad esempio, alla serata di presentazione delle attività sono venute le mamme, con loro abbiamo dovuto interagire per la parte informativa ed organizzativa iniziale. È stato un punto di partenza, uno stimolo sul quale praticare una riflessione profonda. Il resto, dopo quest’esperienza, è venuto da sè”.
Raccontaci cosa è emerso e com’è andata.
“Il primo campeggio, con 9 papà, di cui quattro non conoscevano la nostra realtà associativa, è stata un’esperienza importante che ci ha fornito numerosi strumenti e ci ha resi più consapevoli. E’ stato nei momenti non “obbligati”, in cui non erano previste attività specifiche che sono emerse le questioni educative e relazionali riguardo il ruolo di padre o di marito tra i partecipanti. Hanno fatto tutto loro: date le età diverse dei bambini, chiacchierando, hanno dato vita ad un confronto totalmente informale ma profondo. Un momento educativo, perchè raccontarsi, ascoltare gli altri parlare delle loro giornate, serve a guardarsi allo specchio per capire cosa non va e cosa c’è da cambiare nei propri rapporti e relazioni”.
Ancora oggi l’infanzia ci vede crescere ed educare principalmente dalle donne: è una caratteristica della nostra società, mentre i padri sono spesso sopraffatti dal lavoro e dagli impegni quotidiani che limitano la loro relazione con i figli.
“Esistono oggi molti momenti dedicati alle mamme sul nostro territorio, pochi sono quelli aperti a padri e figli, meno ancora quelli per padri in quanto tali. Mi spiego meglio: è cosa normale, un’evoluzione davvero molto positiva, che le madri si trovino per momenti dedicati all’allattamento, alla cura dei bambini, esistono iniziative volte al confronto e alla formazione o al sostegno psicologico. Per i padri non è così, i padri escono molto di più in realtà ma si ritrovano tra amici, compagni di squadra, colleghi, non si danno appuntamento per il semplice motivo di essere papà. Per questo abbiamo pensato ad uno spazio divertente e “bello”, nel senso di soddisfacente per tutti, dove andare come papà e dove la regola sia fare i papà, nel rispetto dei tempi e dei bisogni dei figli”.
Nel 2017 il Comune di Rovereto si interessa alle attività e invita l’Associazione come partner ad un bando interministeriale. Tra 40 progetti, quello della Tana dei Papà riceve il punteggio più alto e diventa realtà grazie al finanziamento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e la Provincia autonoma di Trento, con la partnership di Comunità della Vallagarina, Comune di Villa Lagarina, Comune di Rovereto, Comunità Murialdo e Associazione SEV. Di cosa si tratta?
“A dicembre 2018 siamo partiti con le prime iniziative mirate principalmente a passare dei momenti divertenti e particolari con i propri figli e gli altri papà. Con il 2019 il progetto è decollato. Si tratta per lo più di laboratori manuali e creativi che si svolgono il sabato pomeriggio a Villa Lagarina (SpazioLab) e Rovereto (via Canestrini), attività sportive e gite. Le attività, aperte a tutte le famiglie della Vallagarina, sono rivolte a bambini (e i loro papà) dai 3 ai 14 anni, e saranno divise per fasce d’età. Saranno quasi tutte gratuite, sarà richiesto un contributo per le uscite”.
Perchè le mamme non sono ammesse?
“Il percorso che abbiamo iniziato, oltre a puntare al divertimento, a saldare il rapporto con i propri figli, vuole essere un modo spensierato e naturale per una riflessione e una maggiore consapevolezza circa il proprio modo di essere padre. Per questo parliamo sempre di momenti educativi su due livelli: sia per gli adulti sia per i bambini o ragazzi che vi partecipano”.
Le mamme sono sicuramente felici di prendersi un break.
“Sì, anche se alcune sono un po’ in ansia o ci chiedono di poter partecipare, tanto che prevediamo di trovare dei momenti ad hoc per coinvolgerle, magari come giudici/assaggiatori nel finale dei corsi di cucina. Tutto sempre nell’ottica e nel rispetto del ruolo dei padri/figli in modo che possano essere fieri e gratificati nel dimostrare di farcela anche senza di loro. E di cavarsela molto più che bene”.
Oggi i padri aiutano le madri molto di più di quanto avveniva in passato e aiutano i figli a liberarsi di quell’antico codice per cui le madri erano le uniche a saper crescere i figli mentre ai padri toccava il ruolo autoritario.
“Viviamo un momento sociale e storico nuovo, in cui la figura del padre è cambiata ed è ricca di potenzialità interessanti. Chiaramente questo significa che il “vecchio modello” genitoriale è in crisi, a favore di uno nuovo che è ancora tutto da definire e non sarà mai uguale per tutti. Vorrei ricordare che non sempre i ruoli dipendono dal sesso, l’essenziale è che nella coppia coabitino i diversi aspetti, l’importante è fare i genitori, non essere madri o padri”.
Quale è stato il riscontro finora?
“In questi anni con l’associazione Energie Alternative abbiamo creato una rete e un clima di fiducia importante in Vallagarina. In questo progetto ci sono stati quelli che si sono iscritti perchè già ci conoscevano e sanno come lavoriamo, il passaparola e i social han fatto il resto, a sottolineare il bisogno di conciliare famiglia e tempo libero. Ammetto che nessuno di noi si aspettava l’adesione che c’è stata, una partenza ottima: da inizio anno abbiamo registrato un centinaio di persone. Al solo corso di cucina di gennaio, sono rimaste escluse una ventina di famiglie”.
Come si avvicinano a voi i papà?
“La verità è che sono più le mamme ad avvicinarsi alla nostra realtà attraverso internet o il passaparola. Sono loro a “taggare” i compagni e mariti o ad iscriverli direttamente attraverso il nostro sito alle attività. Può sembrare un controsenso ma alla Tana dei papà gli indirizzi mail attraverso i quali ci si iscrive sono quelli delle mamme!”
Qual è il profilo tipico dei padri che partecipano alle iniziative?
“Credo sia ancora presto per le statistiche o per tracciare profili. Per ora sono pochi quelli che si sono iscritti a più attività, forse perché orientati da un particolare interesse per un tema. Questo trend cambierà probabilmente, siamo già al lavoro e ci stiamo impegnando a rendere possibili nuove interessanti iniziative”.
Quale feedback avete da parte loro?
“Alla fine di ogni attività chiediamo di compilare un questionario, ci interessa raccogliere consigli, opinioni, conoscere quali sono le motivazioni che avvicinano le famiglie alla nostra realtà e i loro bisogni. C’è molta voglia di confronto, di sentirsi parte di una comunità e la necessità di ritagliarsi del tempo da passare con i bambini in maniera esclusiva, facendo attività difficilmente ripetibili a casa. Alcuni papà ci hanno anche chiesto di fare cose nelle quali sono loro stessi esperti o specializzati, come musica o murales. Proprio nella sede di Villa Lagarina è stato realizzato un grande e bellissimo murales da un papà ed ora lo stiamo lentamente colorando insieme”.
Cosa dicono di voi le mamme?
“Le mamme son curiose, chiedono informazioni all’inizio e, a lavori conclusi, confessano di essere entusiaste di quello che viene riportato dai partecipanti. Molte ci chiedono come i papà riescono a gestire i fratelli e le sorelle”.
Ed i bambini?
“I più piccoli faticano un po’ all’inizio, per loro è tutto nuovo, dalle facce all’ambiente ma riescono sempre a finire i laboratori e tornano. I bambini più grandi vengono per attività specifiche a cui sono spesso già appassionati. In entrambi i casi è sempre faticoso finire in orario e passare al gruppo successivo.
Ricordo una bimba di 2 anni e mezzo, arrivata in ritardo insieme al suo papà, al laboratorio “Mani in pasta”, piangeva, non voleva fare nulla, il padre era in difficoltà ma è stato bravo a lasciarle tempo, rassicurarla e non forzarla in alcun modo. Lei pian piano ha preso fiducia e ha partecipato. Dopo due ore, alla fine del laboratorio, non riuscivamo a mandarla via, a farle capire che ora doveva andare”.
Quali progetti avete per il futuro? Cosa vi piacerebbe realizzare?
“Siamo alle prese con l’organizzazione delle attività e delle uscite dei prossimi mesi, e quelle dell’estate, primo tra tutti il camping. Può non sembrare ma alle spalle di momenti anche brevi, c’è un sacco di lavoro e molta preparazione. Vogliamo offrire a papà e ai bambini attrattive nuove e più varie possibili con competenze adeguate. Un’altra cosa a cui stiamo lavorando è il coinvolgimento delle mamme, come accennavo prima, ci piacerebbe studiare dei momenti da vivere insieme come famiglia durante le trasferte o in attività specifiche”.
Come vi mantenete e come possiamo aiutare la vostra realtà?
“Al momento il progetto è interamente finanziato fino alla scadenza del bando ad autunno del 2019, quindi non accettiamo aiuti economici, nonostante ci sia stato chi ha manifestato la voglia di effettuare una donazione a seguito dei laboratori. Ci auguriamo di trovare un finanziamento pubblico, privato oppure misto per il prossimo anno, ci piacerebbe dare continuità al progetto e allargare la base continuando a creare ricadute positive sul territorio. Ora non possiamo fare altro che invitarvi a partecipare e divertirvi con noi”.
Chi siete, quanti siete ad operare?
“Io sono un ingegnere ma da anni ho scelto di dedicarmi a queste realtà, poi c’è la mia socia Alice Daldosso, laureata in scienze della formazione che mi affianca nell’ideazione, nel coordinamento e nella supervisione del progetto. Per quanto riguarda la realizzazione, l’organizzazione e il front end, la nostra equipe è composta da Diego Barrio e Alessia Tasin entrambi educatori professionali rispettivamente classe 1981 e 1992. Abbiamo creato una cabina di regia insieme alla Comunità Murialdo e all’Associazione SEV per il supporto pratico e logistico, per coordinarci con il Comune e il contesto in cui siamo inseriti. Collaboriamo inoltre con altre realtà che ci danno supporto e ci guidano nei laboratori a tema, come è successo per quello sulla preistoria dove i nostri educatori hanno affiancato agli esperti del Did@ct (Didattica @rcheologia e Cultura in Trentino) nella creazione di utensili e pitture rupestri o in quello circense con gli esperti di Bolla di Sapone - Scuola di Circo”.

Sito: http://energiealternativetn.altervista.org/la-tana-dei-papa/
Pagina Fb: https://www.facebook.com/LaTaDePa
ν

L’ARDENTE DESIDERIO DI MERITARE CIÒ CHE SI HA

DAL PRIMIERO ALL’ETÀ DI 15 ANNI PENELOPE SCARIAN È PARTITA ALLA VOLTA DI LONDRA PER INSEGUIRE IL PROPRIO SOGNO: DIVENTARE BALLERINA PROFESSIONISTA E POTER LAVORARE IN UNA PRESTIGIOSA COMPAGNIA. FELICE E ORGOGLIOSA PER AVER TROVATO LA SUA STRADA, DOPO LO STUDIO INTENSIVO DELLA DANZA A CASTELFRANCO VENETO, HA SUPERATO UNA DIFFICILE AUDIZIONE PER POTER ACCEDERE ALLA SCUOLA DELL’ENGLISH NATIONAL BALLET, DOVE STA LAVORANDO SODO PER “CONTINUARE AD ALIMENTARE IL FUOCO” DI TERSICORE CHE SENTE VIVO DENTRO DI SÉ

Come è avvenuto l’incontro con la danza?
“Avevo circa sei anni quando per la prima volta ho visto a Trento il balletto dello Schiaccianoci e poco dopo mia mamma mi ha iscritta ad un corso di danza. Da allora è scattato un fuoco dentro di me, che ho dovuto continuare ad alimentare. Mi considero fortunata ad aver trovato la mia vocazione. Ringrazio mia mamma che ha capito che per me la danza non era un semplice passatempo. Per questo mi ha sempre sostenuta, ma anche se cambiassi idea sono comunque certa che lei mi sosterrebbe.
Per quattro anni ho frequentato un corso di danza alla scuola musicale del Primiero. Per un anno, quando questa scuola ha chiuso, sono andata a studiare a Levico dove, con grande sacrifico, i miei genitori hanno fatto di tutto per potermi accompagnare a lezione circa tre volte a settimana. In questo anno mi sono preparata per poter poi frequentare la scuola di danza Il Balletto a Castelfranco Veneto, un’ottima realtà formativa, dove mi sono trasferita per quattro anni. Il primo anno è stato duro perché ho dovuto mettermi al pari del gruppo della mia classe che era più avanti. Ho avuto l’opportunità di studiare tutte le tecniche di danza classica, grazie anche alla presenza di insegnanti qualificati fissi, come una coppia russa, e docenti ospiti. Questo mi ha preparato ad essere versatile.”
La partecipazione a concorsi e competizioni in Italia e all’estero cosa ha rappresentato?
“Nel periodo di studio a Castelfranco Veneto, all’età di 13 anni, ho iniziato a competere in concorsi, prima in gruppo e poi come solista. Ho partecipato a più di 30 concorsi, la maggior parte vinti. I più importanti, per il loro carattere internazionale, sono stati l’ISTD Awards di Londra e il “Pierina Legnani International Competition” di Lecco. Queste esperienze mi hanno dato visibilità e sono state un’occasione per potermi esibire davanti a giurie di esperti, oltre alla possibilità di essere sul palcoscenico, davanti ad un pubblico per potermi cimentare nell’interpretazione, indossando i panni di diversi personaggi. Così ho iniziato ad avere un’idea di come esprimermi. Ho sempre vissuto le competizioni come un’opportunità importante.
In seguito alla vincita di una borsa di studio ho iniziato a studiare in modo intensivo, per brevi periodi anche all’estero, come ad Amsterdam. Dopo cinque anni a Castelfranco ero finalmente pronta per poter tentare l’audizione a Londra, necessaria per accedere all’English National Ballet School. Ho fatto la pre-audizione in Italia e poi, a inizio 2017, ho partecipato alla selezione a Londra. Ora sto frequentando il secondo anno e penso di riuscire a diplomarmi a giugno 2020. Il sistema scolastico britannico è diverso: qua ho fatto l’esame per l’abilitazione linguistica e sto frequentando il Trinity College London’s Diploma in Professional Dance.”
Qual è l’aspetto più difficile nell’aver scelto la danza per la vita?
“Sicuramente è difficile riuscire a pensare ad un futuro stabile, per il fatto che un ballerino professionalmente ha vita breve. Terminati gli studi dovrò pensare a cosa fare e a quali scelte compiere. È quindi necessario prepararsi al meglio, perché il lavoro inizia presto e termina altrettanto presto. Un altro aspetto difficile è la rinuncia alla vita sociale, il non essere compresi dagli amici che magari decidono di tagliare i rapporti con te perché non riescono a capire la tua scelta…. Un’altra questione delicata che mi riguarda personalmente è la paura di farsi male. Attualmente sto vivendo questa condizione in seguito ad una recente slogatura alla caviglia, che mi sono procurata a lezione facendo sei salti, che mi ha tenuta ferma due mesi.”
Qual è invece l’aspetto più bello e gratificante?
“Contrariamente di positivo c’è che io sto vivendo il mio sogno, in una città fantastica che è una continua fonte d’ispirazione. Io sono immensamente felice di poter fare tutti i giorni, mettendoci tutte le mie energie, quello che amo. Mi sono innamorata della mia routine, che auguro a tutte le persone. Mi sento fortunata. Io voglio riuscire a meritarmi tutto ciò che ho.”
Pensando ad un futuro, seppur breve e instabile, quali sono i suoi obiettivi?
“Io ho tanti sogni e obiettivi. Sono giovane e quindi penso che prima del diploma cambierò idea tante volte. Al momento ambisco ad un contratto per poter danzare in una compagnia che valorizzi le mie qualità, in una città che mi sappia ispirare. Mi hanno sempre detto che ho un lato artistico sviluppato e che riesco a trasmettere l’amore che ho verso quest’arte. Oltre a maturare, devo migliorarmi su molte cose anche perché non possiedo le doti naturali dalle ballerine, come ad esempio le gambe lunghe e iper-estese, le linee, …. Su questo negli anni ho sempre dovuto lavorare duramente.”
Quali sono i suoi modelli ispiratori?
“Ho sempre avuto il mito delle ballerine inglesi del Royal Ballet di Londra, come la danzatrice Manuela Núñez (prima ballerina del Royal Ballet, ndr). Per me lei è un’artista a 360 gradi e appena mi è possibile vado a teatro ad ammirarla. La prima volta che ho visto il Royal Ballet è stato su YouTube a 12 anni, mentre lei poco dopo l’ho conosciuta ed ammirata nella Bella addormentata nel bosco.
A Londra la danza è un’arte stimata, mentre in Italia è sotto valorizzata. Quando dico che studio per fare la ballerina qua mi chiedono: «Seriamente e come lavoro cosa pensi di fare?!» A Londra questo non succede.”
Come si vive a Londra?
“Io non dispongo di molto tempo libero e quindi a Londra non riesco a fare la turista…. ma tempo a parte è una città fantastica, anche se molto costosa. La maggior parte dei musei è gratuiti e così ho la possibilità di visitare le gallerie d’arte. Di Londra mi piace l’architettura e i mezzi di trasporto sono quasi impeccabili.”
Cosa le manca dell’Italia e della sua casa?
“Mi manca molto il cibo italiano e soprattutto la cucina di casa della mia mamma e della mia nonna. Quanto ritorno a casa posso riposarmi e non devo cucinare, come invece sono costretta a fare a Londra. La famiglia, seppur lontana, la sento molto vicina. Mi mancano l’aria pulita e la tranquillità, a cui posso anche rinunciare, ma della danza assolutamente non posso fare a meno! ν

MAURIZIO FUGATTI “PRIMA ESPERIENZA, MA IDEE GIÀ CHIARE”

LO CHIAMAVANO L’UOMO DEI GAZEBO, MA ADESSO È PRESIDENTE DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO. SIAMO ANDATI A TROVARLO NELLA SUA CASA VICINO AVIO, DOVE CI HA ACCOLTO CON CORTESIA ASSIEME ALLA MOGLIE ELISA E AI DUE GEMELLI, SOFIA E MATTEO. LO ABBIAMO SOTTOPOSTO AD UN FUOCO DI FILA DI DOMANDE,
ALLE QUALI HA RISPOSTO VOLENTIERI, CON LA SUA CONSUETA FLEMMA. UN MAURIZIO FUGATTI PER CERTI ASPETTI INEDITO CHE NON MANCHERÀ DI SORPRENDERE I NOSTRI LETTORI. LEGHISTI E NON


Eccolo. È proprio lui. L’uomo nuovo della politica trentina. Oddio, nuovo si fa per dire, considerato che è stato per ben dodici anni segretario della Lega trentina e più volte parlamentare. Fatto sta che ce l’ho proprio di fronte e fa uno strano effetto vederlo così, in déshabillé, con una semplice tuta, ai piedi della sua casetta arroccata sui rilievi attorno ad Avio, battuti da un vento stranamente gelido (“Qui è sempre così”, ci confermerà poco dopo).
È un fan di gruppi italiani storici come Litfiba e Cccp e questo me lo rende notevolmente simpatico. Un po’ meno simpatico il fatto che tifi per la Juventus, ma vabbé, nessuno è perfetto.
Frivolezze, è vero, ma nell’intervista c’è spazio per tematiche molto serie e gravose come il lavoro e la crisi economica. Certo, l’atmosfera è gioviale. Maurizio Fugatti mi riceve in simbiosi con la sua famiglia: Elisa, l’elegante moglie, e i due gemellini Matteo e Sofia, armati di vassoi, libri, giocattoli vari e strumenti musicali con i quali movimentano (e musicano amabilmente) la mia intervista.
Fugatti è in tuta, è vero, ha un aspetto dimesso, ma non per nulla sciatto, anzi. Conserva un portamento notevole nonostante la tenuta casalinga.
In attesa di cominciare, mi arrovello sull’appellativo con cui chiamarlo, Presidente o Governatore? Mi butto sul secondo, dopotutto ho ben il cinquanta per cento di possibilità di incontrare il suo consenso.
Buongiorno Governatore, abita proprio sul… Che c’è? Ho detto qualcosa che non va?
Mi piace di più quando mi chiamano Presidente.
Urgh... Va bene. Buongiorno Presidente, stavo dicendo che abita proprio al confine...
Pensi che la casa di mia nonna era la prima che si incontrava in territorio trentino salendo dal Veneto.
Che ricordo ha della sua infanzia?
Ho fatto le scuole elementari a Borghetto, che un tempo faceva comune.
Cosa voleva dire per lei abitare in una terra di confine?
Lo sa che una volta c’era anche il porto? Mi ricordo la festa d’Estate, con la barca che veniva calata nell’Adige… Pensi che il paese di Mama d’Avio è tagliato addirittura in due dal confine…
Abbiamo appena letto sui giornali della nomina di Vittorio Sgarbi…
Stamattina ho preso i giornali e…
...ha appreso anche lei la cosa dai giornali?
No, certo che no… Dicevo che dai giornali mi pare che ci sia un certo interesse. Lo Sgarbi lo conosco da tempo. Avevamo preso un accordo in autunno. Occorreva aspettare i tempo tecnici per la nomina. Ed ora eccolo qua.
Cosa può rappresentare per il Mart?
Credo un’ottima occasione, sia dal punto di vista della risonanza mediatica sia dal punto di vista delle opere: lui potrà portare collezioni di un certo peso. Certo, lui ha un carattere importante…
A volte il personaggio non è così gestibile…
È vero. Tuttavia credo che la scommessa vada comunque giocata.
Lui cosa dice?
È molto contento. Ci teneva.

Cambiamo argomento. Noi di TrentinoMese abbiamo inseguito per cinque anni il suo predecessore, tentando di convincerlo a rilasciare un’intervista “casalinga” come questa. Non ci siamo riusciti. Lei ci ha detto di sì al primo tentativo.

Non dico che il mio predecessore abbia sbagliato, ma solo che personalmente ho un’impostazione di questo tipo. Lo abbiamo dimostrato anche come gruppo di governo nel rapporto con i cittadini.
In che modo?
Ad esempio con l’apertura del martedì mattina alle istanze della gente. Sono approcci diversi.
Giudicheranno i lettori…
Un giornalista viene a casa e mi intervista. Che problema c’è?

Appunto. Senza contare il ritorno d’immagine che ne deriva. Due sono le cose: o Maurizio Fugatti ha progettato a tavolino la situazione famigliare, inscenando quest’atmosfera da Mulino Bianco che sa di innocenza e di disponibilità o è veramente tutto vero e in tal caso è il politico meno trombone che si trovi sulla piazza. Mentre Matteo e Sofia rumoreggiano allegri in salotto, propendiamo decisamente per la seconda ipotesi.
No, la nostra rivista non si occupa di politica. Però i politici ci piace sorprenderli con certe domandine sfiziose, come quella che segue.


Senta Fugatti, il 3 novembre 1918 l’esercito italiano entrava a Trento. Esattamente cento anni dopo, il 3 novembre 2018, un leghista fa ingresso nella stanza dei bottoni di Piazza Dante. Un’invasione o una liberazione?
Né una né l’altra. È stata una scelta dei cittadini (…intanto, Sofia chiede alla mamma se Piazza Dante è sul Monopoli. “È dove lavora il papà”, risponde la signora Elisa). Certo ammetto che si è trattato di una scelta forte perché il Trentino non ha mai avuto, dal dopoguerra in poi, governi che non fossero democristiani o autonomisti.
Qual è stata la prima cosa che ha pensato una volta eletto?
Ho avvertito un forte senso di responsabilità e tanta emozione. Con la consapevolezza di dover restare con i piedi per terra.
Noi non abbiamo mai detto di voler fare rivoluzioni, bensì riforme. Al di là di qualche accenno su temi a noi cari, che può sembrare rivoluzionario – vedi l’immigrazione o la sicurezza – sul resto abbiamo dimostrato di essere in primis riformatori.
Lei spesso viene definito – con una brutta espressione, a mio avviso – “l’uomo dei gazebo”. Ora deve prendere decisioni come si conviene alla buona politica. Come si sta col timone del comando in mano?
Al di là delle scelte politiche che possono piacere o meno, come è legittimo, la parte organizzativa presenta delle complessità. Il Trentino è un piccolo Stato. Il contatto tra il Presidente e i cittadini è molto limitato. Con te vuol parlare il pensionato come il rettore. Riuscire a organizzare i tempi per non deludere tutte queste persone con attese troppo lunghe: ecco, questa è l’oggettiva difficoltà.
Per lo meno lei ci sta provando… C’è chi non ci ha nemmeno provato.
Questo non lo so.
“Prima i trentini” è stato uno dei cavalli di battaglia della Lega nelle ultime elezioni provinciali. Il filosofo Noam Chomsky sostiene che “il sovranismo è la cura sbagliata ad un problema reale”: lei cosa ne pensa?
A me piace parlare più di “autonomismo”. Attenzione perché sovranismo non vuol dire nazionalismo. Si cerca di fare prima gli interessi della gente vicina e queste sono le finalità dell’autonomia. Come diceva Enrico Puner: noi siamo di nazionalità trentina.
Quindi secondo lei sovranismo e autonomia sono conciliabili?
Sì, se non ci riferiamo a quel sovranismo di tipo nazionalistico.
Nel 2011 abbiamo intervistato uno dei suoi predecessori, Lorenzo Dellai. Il quale dichiarò che non abbiamo nessuna possibilità di perdere la nostra autonomia.
Sono d’accordo con lui.
È così inalienabile la nostra autonomia? Lo può confermare otto anni dopo? Non c’è il rischio che l’autonomia differenziata per Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna – tanto osteggiata dai 5 stelle – si riveli una sorta di declassamento per quella trentina?
Credo che dia la possibilità di avere maggiori forme di autogoverno per quelle regioni che l’hanno chiesta. Questo alla fine concorrere a diminuire il senso di ostilità in parlamento verso le altre autonomie, come la nostra.
Ma se un giorno raggiungessero il nostro livello…
Io penso che non possano farlo. Si possono alzare di livello ma senza mai raggiungere la nostra che ha un ancoraggio internazionale ed è statutaria. Alla fine la loro autonomia ha l’effetto – apparentemente paradossale – di tutelare di più la nostra.
Mi faccia capire, – uso un gergo ciclistico – è come se noi avessimo un vantaggio di un minuto sul gruppo e riuscissimo a conservare quel vantaggio per tutto il corso della gara. Gli altri allora cosa ci guadagnano?
C’è un senso di libertà per gli altri, e noi come autonomisti non possiamo che rallegrarci di questo risultato. La nostra autonomia sarà sempre più ricercata delle altre.
A proposito, visto che non ci sente nessuno, è vero che il premier Conte è un burattino, come ha deto Guy Verhofstadt all’Europarlamento?
No, io sono stato sottosegretario, ho avuto modo di conoscerlo e mi pare una persona seria. È chiaro che lui fa il premier in un Governo di contratto. E, si badi, non c’era alternativa a questo Governo. Occorreva una mediazione e lui mi pare stia interpretando bene questo ruolo.
C’è un dibattito sulla competenza. Anche in politica, l’improvvisazione dà l’impressione di essere diventata una nota di merito. Sui social poi siamo tutti esperti. Cade un ponte e siamo tutti ingegneri. Bombardano la Siria e ci ritroviamo improvvisamente circondati da esperti di politica internazionale. Qual è l’idea di competenza di Maurizio Fugatti?
Penso a delle basi date dalla conoscenza, che derivano dal lavoro o dagli studi che hai fatto. Dopo di che, in politica non è detto che chi è inesperto sia per forza incapace.
Sta pensando alla sua Giunta?
La nostra Giunta provinciale è la più inesperta della storia dell’Autonomia trentina…
Lei escluso?
No, mettiamoci dentro anche il sottoscritto. Siamo inesperti però non andiamo in giro ad insegnare nulla a nessuno. Prestiamo ascolto. Siamo qui per imparare. Parlo anche per i miei assessori che – mi viene segnalato – si muovono così.
Un po’ di preparazione, una certa dose di modestia (perché se sei inesperto devi compensare il deficit con una certa dose di modestia per poter predisporti all’apprendimento).
Se al contrario pensi di essere un fenomeno… prima o poi batti la testa. Ci sono casi di questo tipo anche a livello nazionale…

“Maurizio, noi ci andiamo a preparare…”. La signora Elisa ci interrompe un momento. Va a preparare i bambini perché li attende una piccola gita sugli sci. Il Presidente è a casa, stranamente libero da impegni per qualche ora, e l’occasione è ghiotta. Oltre lo sci, scopriamo che ama molto andare a correre: il phisique du role certo non gli manca, specialmente questo sabato mattina di metà febbraio, in cui indossa con molta naturalezza una comoda tuta da ginnastica.
Senza l’allegro ciangottare di Sofia e Matteo, il soggiorno pare ora essere piombato improvvisamente in un silenzio monastico. Le nostre voci rimbombano sulle pareti.

Una battuta sulle eccellenze: il Trentino ne dispone in moltissimi campi. In quale si può fare decisamente di più?
In alcuni settori certamente. Penso al tema del lavoro e alle contraddizioni del mercato del lavoro stesso. Settori in cerca di personale da una parte e ragazzi in cerca di occupazione dall’altra. Manca questo incontro tra domanda e offerta e non si riesce a capirne appieno il perché.
Come va con la disoccupazione giovanile in Trentino?
I dati statistici ci dicono che è oggettivamente un problema.
Cos’altro ha margini di miglioramento qui da noi?
Senz’altro la semplificazione. Forse è il tema più difficile.
E il turismo?
Dobbiamo lavorare di più per un turismo di qualità. E poi lavorare di più sulla promozione dei nostri prodotti agricoli.
Ci può fare un esempio?
Oggi il Trentino non ha un suo yogurt.
Ah, no?!
Per comprare uno yogurt trentino oggi io devo andare negli spacci dei caseifici. Perché accade questo? Io non lo so. Se vai nei negozi trovi quattro prodotti dell’Alto Adige e nemmeno uno trentino.
E i vini?
Al netto di Ferrari e di un po’ di Trentodoc (e del San Leonardo che si produce qui accanto), quando esci dalla regione ti accorgi che tutta questa eccellenza forse non c’è.
Gioca molto in questo settore quel fastidioso complesso d’inferiorità che affligge il Trentino nei confronti dei cugini sudtirolesi…
In questi ultimi anni Bolzano ha imposto delle scelte strategiche importanti al Trentino, tramite il Governo dell’SVP.
Si può dire che adesso la Lega diventa un po’ arbitro regionale?
Certo, anche se non è facile. C’è un contesto regionale, l’SVP è abituata a ragionare con le sue logiche. È un percorso di scelte quotidiane che vanno concordate. Non dimentichiamo che la nostra Autonomia e la loro dipendono dalla bontà dei rapporti che intercorrono tra le due provincie.
Parliamo di cooperazione: per qualcuno il cooperatore è un imprenditore di Serie B. Un imprenditore che cammina sul filo ma sa di non rischiare nulla perché sotto ha la rete dell’assistenzialismo. Non crede che si sia ecceduto in questi ultimi anni creando una cultura che non contempla il rischio per l’imprenditorialità?
Fermo restando che il rischio in un ambiente cooperativo è condiviso tra i soci, è chiaro che al privato concorrente potrebbe anche dar fastidio tutta questa “solidarietà”. In ogni caso, alla fine la cooperazione è stata importante anche per la tenuta sociale del Trentino, per l’unità culturale dei diversi territori della provincia e delle loro peculiarità che sono a volte molto diverse tra loro.
E cioè?
Le problematiche di Canal San Bovo e quelle di Predazzo o di Storo hanno ben poco in comune. La cooperazione in questo contesto ha fatto benissimo da collante, permettendo uno sviluppo il più possibile omogeneo tra centro e periferia.
(Fa una piccola pausa, poi riprende.) La cooperazione ha fatto anche degli errori, per carità, ma in primis va evidenziato il valore sociale, economico e di tenuta che ha regalato al Trentino.
Veniamo a un altro tema. In ogni campagna elettorale sentiamo promettere uno snellimento della burocrazia. In realtà, ogni anno che passa, quel che dovrebbe essere gestito dalla società civile viene fagocitato sempre più dall’ente pubblico.
Come ho già detto prima, questo è il tema più difficile e inestricabile. È una cosa che chiedono tutte le categorie. Come Giunta abbiamo creato un’unità operativa che si chiama “semplificazione e digitalizzazione” a cui ogni categoria ha assegnato un proprio referente che, di volta in volta, sottopone le problematiche più scottanti legate appunto alla burocrazia.
C’è anche un rappresentante del volontariato?
Volontariato?
Sì, insomma, qualcuno che porti le istanze delle associazioni… (Fugatti prende nota) dacché sono assediate dalla burocrazia, dai controlli asfissianti, una sorta di cappa poliziesca che rende sempre più complicato organizzare cose, dalla festa campestre alla manifestazione culturale. Sempre più bandi vanno deserti o quasi, creando chiusure quando non situazioni imbarazzanti (un esempio su tutti, il Natale a Rovereto). Non crede che la politica stia abbandonando le associazioni al loro destino?
Non lo so. Sono Presidente da tre mesi e quello che lei mi dice mi preoccupa. Sicuramente sarà uno dei temi che bisognerà affrontare nei prossimi ordini del giorno.
In Italia già da diversi mesi impera un certo dibattito sul ruolo delle élite. Spesso lei ha parlato di dissociazione tra le èlite stesse e il popolo che vive sulla sua pelle proprio questo scollamento. Lei è allo stesso tempo Presidente (èlite) e consulente dei disagi del popolo. Come fa a conciliare i due ruoli?
Ho coscienza del fatto che se si parla troppo con i vertici si perde per strada il termometro del popolo. Si dimentica. Per questo il martedì mattina, alle 7, apro le porte del mio ufficio e torno con i piedi per terra: lascio da parte i massimi sistemi e affronto i problemi molto più concreti della gente comune. La madre con il figlio disabile, l’artigiano con la cartella esattoriale e sa cosa succede?
Cosa?
Che ti ricordi da dove sei venuto. E cioè dal popolo.
Aiuta anche lei questo rapporto diretto con i cittadini?
Certo, mi aiuta nel senso che mi impedisce quell’alienazione che è tipica del potere a certi livelli. Spesso mi accusano di non essere preoccupato per le problematiche delle élite: sindacati, banche, ecc.
I problemi delle élite e quelli del popolo sono a due livelli diversi. Mi preoccupano di più i secondi.
Delle volte però il popolo commette un errore di valutazione. Anche molti trentini pensano di star facendo politica, in realtà sono solo militanti in un partito (pensiamo allo spirito dei social). È grosso modo la differenza che c’è tra l’atleta e il tifoso. Un disimpegno mascherato da impegno. Non pensa che sia necessaria una nuova educazione alla cultura politica?
Ho fatto il segretario della Lega per dodici anni e so cos’è la polvere. Ho fatto il segretario con il partito al 4%, non dimentichiamolo. Questa mia esperienza la ritengo un punto di forza.
Ritengo che la Lega riesce molto bene a unificare l’essere militante e poi il fare politica. Basta guardare ai tredici consiglieri dell’attuale Consiglio: è tutta gente che ha fatto la militanza. Un’attività indispensabile se vuoi legarti a dei valori. Con i limiti – lo ribadisco – di chi non ha l’esperienza e non ha mai governato e ha fatto solo gazebo. Ma impareranno… È già successo in Veneto e in Lombardia. Ora tocca a noi.
Lei è un tipo pacato, tranquillo. Ho letto una frase di Paolo Gentiloni: “Se riescono a farvi urlare, hanno vinto loro”. Lei che rapporto ha con le critiche?
È difficile che mi inalberi, questo lo sanno tutti. Non vuol dire però che non me la prendo. Ma solo che non lo faccio trasparire.
In passato alcuni politici suoi predecessori hanno sfruttato veri e propri modelli di consenso, fabbriche e magazzini di voti: il cosiddetto collateralismo. Lei ce l’ha un modello di consenso?
Se devo cercare una forma di consenso, ribadisco quanto detto prima nel contatto quasi ossessivo con il popolo. Le faccio un esempio: domani vado al carnevale di Borghetto.

Perché dice che la città di Trento è così importante per il governo provinciale?
Perché è il bacino economico, culturale dell’intera provincia. L’altro giorno ho proposto al Sindaco Andreatta di mettere da parte i colori politici e di incontrarci. Sono convinto che, per la ripartenza del Trentino, non possiamo fossilizzarci sulle appartenenze politiche del tipo “Andreatta è del PD e io sono della Lega pertanto non facciamo niente”.
E quindi fare cosa?
Trovare dei canali comuni: come ad esempio il tema della funivia per il Bondone. Ogni gradino che la città di Trento riesce a salire significa un gradino in più per tutto il territorio. Io in questa sinergia ci credo, a prescindere da chi governa.
A proposito di funivia, cosa ne pensa nello specifico del progetto di collegare la città alla sua montagna?
Mi colpisce che non vi siano delle prese di posizioni nette. Solo un sacco di “forse”, “sì ma” e “no però”. Noi come Provincia ci siamo, ma abbiamo bisogno di convinzione da parte dell’Amministrazione Comunale. Una città d’arte collegata direttamente con le piste da sci costituirebbe un unicum davvero attrattivo.
Dicono che costi troppo…
Certo che costa. Per questo va fatta in simbiosi con il mondo privato che ci deve credere almeno quanto ci crede il pubblico.
L’imprenditore Gino Lunelli, ex presidente delle Cantine Ferrari, recentemente ha dichiarato che si tratta di un servizio pubblico e come tale deve essere totalmente a carico dell’ente pubblico
Per me il servizio pubblico è lo scuolabus. Anche la funivia del Bondone lo è, ma serve ad uno sviluppo generale che ha ricadute su tutti i settori.
Turismo di massa o turismo d’èlite?
Tutti e due sono importanti. Forse dobbiamo crescere un po’ di più sul secondo.
Ambiente e antropizzazione: il turismo trentino vanta numeri da record. Adesso abbiamo il Giro d’Italia, Festival dello Sport ecc. tuttavia il Trentino non è il Wyoming, tralasciando montagne, parchi, boschi e laghi, quel che resta, circa il 3% abitabile è quasi completamente sfruttato. Il turista alimenta l’economia ma anche l’inquinamento… Non crede che bisognerebbe cominciare a ragionare su possibili limiti a tutto ciò?
Secondo me dobbiamo migliorare la destagionalizzazione, scaglionare i turisti in maniera più uniforme tra periodi sovraffollati e periodi che lo sono meno. Ma non credo che dobbiamo porci dei limiti assoluti sui flussi.
Orsi e lupi. Luis Durnwalder, nel 2017, ci ha detto che “il Trentino dovrebbe trovare il coraggio di fare marcia indietro, perché cento anni fa non avevamo 13 milioni di turisti.”
Il Trentino “deve” fare marcia indietro.
Perché?
Li vede quei due bambini lì?
Chi, i suoi figli?
L’altro giorno, qui sopra San Leonardo, un lupo ha sbranato un capriolo. Pensi a quante famiglie con bambini abitano in campagna o in estrema periferia. Gli animalisti di città fanno le loro dimostrazioni in città, appunto. In montagna ci dobbiamo vivere noi. Si rende conto che a Canazei i lupi girano per le strade? Si è davvero dormito in questi ultimi anni su questo tema. Ora, ovviamente, non possiamo cambiare tutto in tre mesi…

Bossi come sta? (Il giorno prima è stato ricoverato in rianimazione…)
Dicono meglio.
Il 10 gennaio scorso è mancato Enzo Erminio Boso: cosa ha rappresentato per lei la sua scomparsa?
Per me è stata una perdita importantissima… Umana prima che politica.

Qui la voce di Maurizio Fugatti si spegne. Come se qualcuno stesse girando una manopola. Gli occhi gli si sono improvvisamente inumiditi. Seguono alcuni attimi di silenzio.
Il Presidente si riprende dalla commozione chiamando in causa i suoi figli. “Cos’è che diceva Boso, Matteo, quando chiamava papà?” “Elà” risponde il piccolo, riportando un po’ di serenità sul volto del suo giovane padre.

La Lega è cambiata, ma lo spirito delle origini rimane.
Tutto si evolve.
Si tratta solo di interpretare il cambiamento. Credo sia uno dei compiti miei e dei miei compagni di partito.
Un indovino mi ha detto che la Lega stravincerà le europee e questo ci porterà a nuove elezioni politiche in autunno…
Certe scelte, in tema infrastrutturale di questo Governo, i territori le stanno vivendo male. C’è l’auspicio che la Lega faccia un grande risultato alle Europee. Dopodiché bisognerà ragionare con gli alleati di governo proprio sull’impostazione data a certe tematiche ambientali e afferenti alle grandi opere.
C’è qualcosa su cui si è dovuto ricredere in questi primi cento giorni?
È troppo presto. Sicuramente ci sarà qualcosa di cui mi dovrò pentire, ma accadrà più avanti.

Chiudiamo con qualche domanda personale. Perché non sorride mai?
(Lui gira la domanda alla moglie) Perché non sorrido mai, Elisa? Me lo chiedono tutti… (Elisa racconta che nel giorno del loro matrimonio gli amici lo rimproveravano: “e meno male che questo dovrebbe essere il giorno più felice della tua vita…” Lui è euforico solo quando guarda vincere la Juventus.)
Non riesco a sorridere.
Nemmeno dopo aver appreso il risultato elettorale di ottobre…
Lì era solo per una forma di responsabilità (ride). Ecco, adesso sto ridendo, però.
Salvini dice che stare sui social è un dovere perché i cittadini gli pagano lo stipendio e vanno informati su tutto. Anche sui suoi famosi ravioli al burro. Il suo rapporto con i social network com’è?
Medio. Ci lavoro, però non scado mai sul personale, salvo rare eccezioni, ad esempio quando è morto Boso. Anche perché per stare sui social devi essere un “uomo da social”, e Salvini lo è.
Si reputa un uomo felice?
(Guarda la sua famiglia) Beh, direi di sì. Senza presunzione.
Posso chiederle qual è il suo rapporto con Dio o con il trascendente?
Sono cattolico, sono credente. E un peccatore, sicuramente. La domenica quando posso seguo la Messa. Secondo qualcuno, in alcune scelte politiche non seguo quanto dice il Papa, ma…
Dove immagina di essere fra 20 anni?
Qui. A questo tavolo. Un giorno tornerò alla campagna, all’azienda agricola di mio papà, ai suoi tacchini.
È vero che suo papà votava sempre DC alle nazionali e PPTT alle provinciali?
Lo ha fatto fino a quando è arrivata la Lega.
Suo zio, Pietro Benvenuti, era segretario della sezione PPTT di Avio…
Abitava in quella casa di cui le parlavo, la prima che si incontra dopo il confine. È una zona questa dove lo spirito autonomista ha sempre avuto la sua culla. Nel 1991 mio zio morì. Andavo a trovare spesso mia nonna, che mi raccontava di un certo politico che l’andava a trovare tutte le settimane. Era Franco Tretter. Il suo è un gesto che mi ha insegnato tanto. Ancora oggi, Tretter è uno dei miei più fidi consiglieri.

La domanda sulla sua idea di famiglia la salto, perché basta guardarvi. Passiamo allora alla piccola interrogazione finale. Quanto costa un litro di latte?
Dunque... Un euro e 30, un euro e quaranta. Quello buono, però.
Cosè il “bailout”?
L’acquisto di un’azienda da parte dello Stato.
Più o meno è così... Come è messo invece in geografia? Saprebbe elencarmi i confini della Siria?
Eh, mamma mia… vediamo: Libano…
Vabbè, accontentiamoci.
In chiusura le chiediamo di aiutarci, perché alcuni esponenti del Governo in questi mesi ci stanno confondendo un po’ le idee… Per l’esattezza Pinochet in quale Stato fece il colpo di Stato?
In Cile. C’era anche quella canzone dei Litfiba… “Santiago”.
Sì, quella si riferiva alla visita di Papa Wojtyla del 1987, ma gliela passiamo. Da quanti anni esiste la democrazia francese?
Beh, dalla rivoluzione. Uno sette otto nove, 1789.
Insomma, questo benedetto tunnel del Brennero c’è o non c’è?!
Lo stiamo facendo.
Qual è la domanda che ha sempre voluto le facessero e non le fa mai nessuno (nemmeno noi)?
Non saprei.
Bene, si vede che gliele abbiamo fatte proprio tutte.

Salutiamo e ringraziamo per la squisita ospitalità. Fugatti è un po’ preoccupato per le ultime risposte date. Ci chiede se ha risposto bene. Lo rassicuriamo su tutto.
Solo sull’esistenza del tunnel del Brennero nutriamo ancora qualche dubbio anche noi. Andremo a controllare e vi faremo sapere. Promesso.
ν

I RAGAZZI DI VIA RASELLA

IL 23 MARZO 1944 ESPLODE LA BOMBA CHE, UCCIDENDO 33 MILITARI ALTOATESINI, CONDURRÀ ALLA TRAGICA RAPPRESAGLIA DELLE FOSSE ARDEATINE E AD UNA GENERALE RECRUDESCENZA DELLA REPRESSIONE NAZISTA. UN CASO ANCORA APERTO, 75 ANNI DOPO. NON SOLO PERCHÉ QUEI CONTADINI E ARTIGIANI DELLE VALLATE SUDTIROLESI, ARRUOLATI A FORZA, CONTINUANO ERRONEAMENTE AD ESSERE DEFINITI “TEDESCHI” E MEMBRI DELLE SS. MA PERCHÉ RITENUTI RESPONSABILI DELL’ECCIDIO IN CUI PERIRANNO 335 PERSONE. UNA DAMNATIO MEMORIAE CHE PARE CONDANNARLI PER SEMPRE AL SILENZIO E, ALCUNI DI LORO, ANCHE AD UNA SEPOLTURA INDEGNA. UNA FERITA APERTA NELLA MEMORIA STORICA DELLA NAZIONE, MA QUEI 33 RAGAZZI, A QUESTO PUNTO, AVREBBERO DIRITTO ALMENO AD UN PO’ DI VERITÀ E DI PACE

Mi aggiro nella pancia del Santuario di Pietralba, a due passi da Bolzano. Siamo quasi sul confine tra Alto Adige e Trentino. La stanza degli ex voto ha le pareti tappezzate di quadri e quadretti: santi, madonne, ma anche scene di incidenti, cadute, immagini di ammalati con le braccia fasciate o infilati in un letto, ritagli di cronaca nera e altro ancora. E poi stampelle, occhiali, caschi da motociclista. Un vero e proprio Sancta Sanctorum delle sfighe. Ad un certo punto, non so perché, vengo attirato da un quadretto contornato di nero che riporta un piccolo elenco di nomi e date di nascita. Sembra sottrarsi in qualche maniera alla logica degli altri ex voto. Voglio dire, solitamente si ringrazia il Cielo per una grazia ricevuta, per lo scampato pericolo. Questo quadretto, invece, riporta uno strano elenco di trentadue persone scomparse. Decedute a Roma, in via Rasella, il 23 marzo del 1944.
Via Rasella, ma certo, – adesso ricordo! – quella bomba che scatenò poi la rappresaglia orribile delle fosse Ardeatine. Ne ho sentito parlare. Di questa vicenda, in quel momento, so solo che i partigiani uccisero alcune SS tedesche, ma allora, perché qui, a Pietralba, questo quadretto? Per scoprirlo mi metto al lavoro, leggendo e interpellando chi ne sa più di me. Illuminante ed imprescindibile, in questo senso, il libro di Lorenzo Baratter, “Dall’Alpenvorland a via Rasella” (Publilux, 2003).
Vado perfino a Roma, in quella strada fatale, e a bocca aperta davanti ai muri ancora sbrecciati dopo tanti anni, respiro un’atmosfera pesante, piena di fantasmi e della flebile eco di urla disumane. Scrivo all’allora Governatore Luis Durnwalder, chiedendo di fare qualcosa per intaccare questa damnatio memoriae che sta condannando quei ragazzi altoatesini alla dimenticanza eterna. Non ricevo nessuna risposta.
Tuttavia non demordo e proseguo con le ricerche. Quel che segue è il mio modesto tentativo di ricostruire i fatti.
•••
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’Italia “scarica” a sorpresa la Germania. Ma per i tedeschi quello dell’armistizio è solo il segreto di Pulcinella, anzi “Das pfeifen die Spatzen schon vom Dach”, come dicono loro. Così solo due giorni dopo viene costituita l’Alpenvorland, il Trentino e l’Alto Adige vengono in tutto e per tutto assoggettati al potere nazista. Tra le altre cose, si presenta la necessità di costituire dei corpi di polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico. Vengono all’uopo formati il Corpo di Sicurezza Trentino, il suo corrispondente altoatesino, il S.o.d., e i Polizeiregiment Italiani – almeno sulla carta – che combattono per i tedeschi.
Alcuni si arruolano perché convinti di evitare così di essere mandati al Fronte, altri perché sinceri sostenitori del nazismo, altri solamente perché costretti a prendere atto della propria volontarietà. Tanto è vero che la cartolina di richiamo si rivolge “An den Kriegsdienstplichtigen”: qualcosa come “All’obbligato al servizio di guerra”. Nel 1979, il quotidiano “Alto Adige” pubblica un inserto intitolato “Quelli di via Rasella”, che rompe un muro di silenzio lungo 35 anni. Josef Prader, reduce del III Battaglione del “Bozen”, racconta a Umberto Gandini: «Ci fecero firmare cartellini sui quali era scritto che eravamo volontari. Io dissi che, se volevano, potevano anche arruolarmi, ma non come volontario. Mi risposero che mi avrebbero definito come pareva a loro, e che se facevo tante storie, sarei finito in Russia. Ecco come eravamo volontari...».
Come racconta Lorenzo Baratter ne “Le Dolomiti del Terzo Reich” (Mursia, 2005), tanti militari hanno già prestato servizio molto tempo prima nell’esercito italiano. Emblematico il caso di Peter Putzer, di Varna. È stato artigliere da montagna sul Tonale, vent’anni prima. Durante l’addestramento a Gries muore sua figlia. Il comando gli nega la licenza per partecipare al funerale. Ma per alcuni le circostanze sono ancora più tremende. Lois Rauter è un contadino della Val Pusteria. Lui e sua moglie hanno due figli, Valentin e Heinrich, che sono minorati psichici. Come altre migliaia di sudtirolesi, viene chiamato a decidere se rimanere cittadino italiano oppure optare per la Germania. Viene convinto alla seconda scelta. Quello che non sa è che i suoi due poveri ragazzi verranno così avviati alla famigerata Aktion T4, il programma nazista di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva in Germania la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da portatori di handicap mentali. Vite che, secondo loro, erano indegne di essere vissute. Lois Rauter riceverà la notizia della morte dei due figli, poco prima di essere arruolato. In via Rasella perderà un braccio.
•••
L’undicesima compagnia del Polizeiregiment Bozen è formata da 156 uomini. Quasi tutti contadini, artigiani, pastori o mugnai delle valli dell’Alto Adige; hanno tra i 30 e i 40 anni e sono comandati dal sottotenente Walter Wolgasth, un prussiano tutto d’un pezzo, una vera carogna secondo i suoi soldati che gli affibbiano il nomignolo di “Vollgas”, Tuttogas, perché si diverte a farli schiattare di fatica. Il battaglione, invece, lo dirige un boemo, Johann “Hans” Dobek (conosciuto anche come Hellmuth Dobbrick). I posti di comando sono naturalmente preclusi agli altoatesini: per loro non rimane che il grado di Unterwachtmeister, il più basso della gerarchia della polizia d’ordine dopo quello di allievo.
Dobek e Tuttogas non hanno una grande opinione dei loro soldati; l’appellativo più gentile che riservano alla truppa è “Holzkoepfe”, teste di legno. Probabilmente non hanno digerito di essere stati assegnati a quel battaglione, a quelle schiene curve abituate a salire su per i sentieri della Val Venosta e dei passi dolomitici, a quella gente di montagna per natura così pacifica e poco incline alla marzialità militaresca. Anche per questo l’addestramento è particolarmente duro. Bolzano e poi Colle Isarco. E da sopportare non ci sono solo la disciplina e la fatica fisica, ma pure l’umiliazione psicologica messa in atto dai comandi. Il razzismo, insomma. “Traditori”, “maiali”, “bastardi” a ogni piè sospinto. A quelle reclute non viene perdonato il fatto di essere così poco tedesche, di non sapere addirittura, come nel caso dei ladini, parlare il tedesco.
Loro, le reclute, malsopportano. In fondo, a quanto ne possono sapere, tutto quello assomiglia tanto a un secondo servizio militare, fatto con una divisa diversa, per una nazione diversa, con tanto di giuramento che viene pronunciato il 28 gennaio. Pochi giorni dopo il Battaglione è trasferito a Roma, con mansioni di sorveglianza.
Per chi sperava di rimanere in Alto Adige non è certo una bella notizia. Anche perché Roma, in quei giorni, almeno in teoria, dovrebbe essere una “Città Aperta”, cioé immune ad ogni tipo di combattimento, ma di fatto è il teatro di un braccio di ferro tra i nazisti e le bande partigiane. La dichiarazione del 14 agosto 1943, infatti, non verrà di fatto mai riconosciuta dagli Alleati.
Di tanto in tanto, sui muri della città, compaiono alcuni manifesti tedeschi. Vi si può leggere una frase terribile, ma molto, molto chiara, che non può lasciare spazio agli equivoci: ogni aggressione contro i militari tedeschi da parte di civili sarà punita con dieci vittime italiane per ogni vittima tedesca. Non è una novità. Già tre volte – il 31 gennaio, il 2 febbraio e il 7 marzo, a Forte Bravetta – in seguito all’uccisione di soldati tedeschi sono stati giustiziati coplessivamente 31 italiani. Un memento che, come vedremo, non sortirà l’effetto voluto.
•••
Il futuro deputato comunista Giorgio Amendola è a capo dei Gruppi di Azione Patriottica nella capitale, i GAP, e li ha già incrociati questi militari un po’ curvi, così poco tedeschi, che cantano come deficienti per le strade di Roma. Sì, li ha visti anche in Piazza di Spagna, recandosi al nascondiglio di Alcide De Gasperi, nel palazzo della Propaganda Fidae. Amendola ordina ai GAP di studiare un piano per attaccare quella Compagnia: un bersaglio troppo facile per potervi rinunciare. Sono una dozzina i gappisti coinvolti, tra cui Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna e Carla Capponi.
La logorante guerra di posizione tra le truppe Alleate, sbarcate ad Anzio due mesi prima, e le forze tedesche al comando del feldmaresciallo Albert Kesselring è al suo culmine. Nessuno avanza verso nessun oltre. E Roma è come un gioiello conteso che abbaglia con crudele bellezza questi soldati dell’undicesima compagnia: valligiani che di tattica e strategia sanno ben poco. Per loro è già stato abbastanza traumatico passare dai prati della Val Badia, alla città dei Cesari. Però, in quei giorni, qualcosa riescono a notarla anche loro. Le guardie sono raddoppiate, le strade di Roma, al contrario degli altri giorni, sono praticamente vuote. Che il momento della liberazione della città sia sempre più vicino è un altro segreto di Pulcinella.
Eppure, senza consultare la Giunta militare della Resistenza e all’insaputa degli altri partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, il GAP dà avvio a quella che Norberto Bobbio definirà, nel 1984, “il più grosso errore della Resistenza”. Già, un errore. Non solo perché porterà alla tremenda carneficina delle Fosse Ardeatine, ma perché segnerà di lì in poi una recrudescenza nel sistema repressivo tedesco, un cambio di atteggiamento nei confronti delle popolazioni più indifese. Pensiamo alle stragi, Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, in primis. È lecito supporre che senza questo inutile attentato si sarebbero risparmiate migliaia di vite umane?
“Inutile”, certo. A che pro, infatti, uccidere soldati nemici con mansioni di sorveglianza, in una città che sta per essere liberata pacificamente, quando sai benissimo che per ogni avversario caduto, a dieci dei tuoi verrà chiesta la vita? Perché un’azione del genere quando il giorno prima, il 22 marzo, il direttore de “Il Messaggero”, Bruno Spampanato, scrive che il comando tedesco avrebbe ritirato a breve le sue truppe da Roma?!
Un’altra domanda senza risposta.
•••
Ci sono giorni che nascono già gonfi di presentimenti, pieni di segni; tanto che già al mattino ti convinci di aver capito cosa accadrà di lì fino a sera.
Il Polizeiregiment Bozen è acquartierato nelle soffitte del Viminale. Da lì, tutte le mattine, l’undicesima compagnia si reca marciando al Foro Mussolini, per svolgere le esercitazioni. Hans Dobek, al seguito in automobile, non si accontenta di esporre le “teste di legno” agli attacchi partigiani. Pretende che si facciano sentire, che cantino come tanti galletti pettoruti, che si mostrino entusiasti di servire il Reich. Come delle vere SS.
Il giorno in questione è il 23 marzo 1944. Ricorre il venticinquesimo della fondazione dei Fasci di Combattimento, antesignani del fascismo. In città è prevista una manifestazione. Il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini responsabile militare del PSIUP, morde il freno: vorrebbe concordare un’azione militare unitaria con i Gap. Si progetta di attaccare il corteo fascista in due punti diversi dai GAP e da una squadra delle Brigate Matteotti socialiste.
I nazisti sanno di questi propositi, così spostano la commemorazione fascista in un palazzo di Via Veneto, per motivi di sicurezza. Ciò nonostante, il battaglione degli altoatesini continua a essere esposto, passando rumorosamente per le vie del centro e, solo quel giorno, con i fucili carichi. Magari la sparo grossa, ma sembra quasi che vengano usati come una specie di esca. Ecco. L’ho detto...
Gli stessi gappisti devono averla notata questa strana aria di smobilitazione. Tant’è che le marce di quelli del Bozen si sono diradate… Il giorno 18 e il giorno 19 il plotone non si fa vedere. I dubbi serpeggiano nel gruppo di Calamandrei e degli altri. Il 20 eccoli di nuovo. Allora, progettano di agire il giorno seguente. Ma c’è un intoppo. Il 21 l’esplosivo non è pronto. E il 22 gli uomini di Dobek latitano nuovamente. I gappisti temono che non se ne faccia più nulla. In fondo Roma sta per essere evacuata. Gli americani sono alle porte della città. Eccetera.
Ed invece.
Il 23 marzo, l’undicesima compagnia si avvicina a Via Rasella. È strano, ma pure quel cagnaccio di Dobek, questo pomeriggio, non sembra più lo stesso. È agitato, continua a fare su e giù con l’automobile. E urla: “Ein Lied! Ein Leid, Schweine!”. E loro obbediscono, e vai con quell’odiosa canzoncina. “Hupf, mein Mädel”, Salta, bella mia… È ridicolo cantare motivi tanto allegri con le granate agganciate alla cintura, col pericolo di attentati, in un mondo impazzito.
Il compito di far brillare l’ordigno viene assegnato a Bentivegna, travestito da spazzino. Poco distante da lui, Carla Capponi, con un impermeabile da gettargli addosso, dopo lo scoppio. I due si sposeranno sei mesi dopo.
I gappisti devono attendere circa due ore in più rispetto alla consueta ora di transito della compagnia in via Rasella; il giovedì 23 marzo 1944 i soldati del “Bozen”, sono partiti in ritardo dopo l’esercitazione di tiro effettuata al poligono di Tor di Quinto e solo alle 15.45 la colonna sbuca da Largo Tritone e gira verso via Rasella. I plotoni sono quattro, uno in fila all’altro. Stranamente tutti i sottufficiali, e anche Wolgatsh e gli altri, sono stati chiamati a rapporto in cima al corteo. Sono due ore di ritardo che potrebbero portare all’annullamento dell’operazione. I negozi stanno per riaprire e le vie si stanno animando di passanti. Anche alcuni bambini si sono messi in coda al plotone scimmiottando la marcia dei soldati. E poi Bentivegna ha quasi finito il tabacco nella pipa, per l’accensione della miccia. Tanto è vero che, alle tre e mezza, Pasquale Balsamo gli passa vicino e gli dice: “Guarda che se alle quattro non sono venuti ti pigli il carrettino e ce ne andiamo”.
Un quarto d’ora dopo, la bomba esplode mentre è appena transitato il secondo plotone. Dodici chili di tritolo pressati in un contenitore di ghisa, a cui sono stati aggiunti sei chili di esplosivo e pezzi sfusi di ferro. L’onda d’urto è devastante. Vengono scardinate porte e finestre, un autobus viene scaraventato contro la cancellata di palazzo Barberini.
Dopo lo scoppio, i gappisti lanciano anche quattro bombe a mano.
•••
Ad essere onesti, non ne ricordo più la fonte. È un aneddoto che ho letto durante le mie ricerche per “Caro Alcide”, la biografia romanzata che ho scritto sullo statista trentino nel 2003. L’aneddoto è questo: al momento della detonazione, Alcide De Gasperi è in compagnia di Giorgio Amendola. L’esplosione fa tremare i vetri, così questi dice al trentino: “Sentito che botto?!”. Degasperi risponde: “Eh, voi comunisti, una ne pensate e cento ne fate”. Un dialogo strano. Quasi divertito. Nemmeno fosse scoppiato un mortaretto di San Silvestro o poco più.
A poche centinaia di metri, in Via Rasella, di divertente non c’è proprio nulla. A terra rimangono tra i 22 e i 26 uomini, alcuni dei quali orrendamente mutilati. Altri moriranno nelle ore successive. Molti dei superstiti porteranno i segni di quello scoppio per tutto il resto della loro vita.
Ci sono anche morti civili, “effetti collaterali” li chiameremmo oggi. Tra loro il dodicenne Piero Zuccheretti. Quel giorno, sta andando al lavoro in una bottega di ottica e da Piazza Barberini viene attirato da quella canzone sguaiata. Il suo povero corpo verrà completamente smembrato dall’esplosione. I piedi non verranno mai ritrovati. (Si badi: non è per morbosità giornalistica che mi soffermo sui particolari della sua fine, ma solo perché, a mio avviso, lui è l’emblema dell’assurdità di questo attentato). Il resto della compagnia sbanda. Com’è comprensibile c’è una gran confusione, urla, sangue, panico, paura. Anche perché non c’è un nemico contro il quale aprire il fuoco. Il nemico è nascosto, fuggito, volatilizzato. Ha tirato il sasso, ha nascosto la mano e ora probabilmente è in piazza Vittorio a festeggiare il successo dell’operazione e la propria incolumità.
I poliziotti altoatesini superstiti allora dirigono l’attenzione verso l’alto, alle finestre dei palazzi di Via Rasella. La bomba deve essere arrivata da lì. Non c’è altra spiegazione. Un vecchio affacciatosi viene freddato da un militare. Dobek è sconvolto, corre fra i corpi smembrati e quelli dei feriti urlando come un pazzo: “Correte, maiali, correte!”. Sul posto giungono immediatamente il questore Pietro Caruso, il generale Kurt Mälzer, comandante militare di Roma, il diplomatico Eugen Dollmann e, insieme in automobile, il console Eitel Friedrich Moellhausen e il ministro dell’Interno della RSI Guido Buffarini Guidi, raggiunti in un secondo momento dal comandante delle SS Herbert Kappler.
Mälzer è furibondo (e, secondo le memorie di Moelhausen, ubriaco fradicio), ordina di portare dell’esplosivo e di far saltare in aria tutti gli edifici dell’isolato tra via Rasella e via delle Quattro Fontane. Solo Kappler riesce a farlo desistere da questo suo apocalittico proposito di vendetta.
Arrivano uomini del Battaglione “Barbarigo” della Xª Flottiglia MAS che, con i superstiti del Bozen, rastrellano la popolazione residente, trasferendola poi nelle cantine del Viminale. Ricordate? “Dieci vittime italiane per ogni vittima tedesca”. Dei rastrellati nella zona dell’attentato, circa 300 persone, dieci saranno tra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine.
Al contrario del comandante Mälzer, il tenente Wolgasth, mantiene una calma tanto olimpica quanto disumana. Aiuta educatamente i feriti a salire sulle ambulanze. In ospedale vorrà sincerarsi delle condizioni di tutti i ricoverati, facendo loro perfino un regalo, un dono da vera superstar nazista: una sua foto con dedica.
Sembra finita, ma non è così. Alla sera, Dobek irrompe come una furia nelle camerate del Viminale. Vuole che siano quegli stessi “maiali” a vendicare i compagni ammazzati dai terroristi. Urla, si sbraccia, scalpita come un cavallo. Nessuno fiata. C’è troppo dolore in quella soffitta. Dolore per i compagni morti e, più che mai, nostalgia di casa. I soldati rifiutano di eseguire l’ordine. Franz, Peter, Toni e gli altri sono cattolici. Proprio loro dovrebbero farlo? Loro che quando stavano a Bolzano e venivano trovati nelle chiese erano obbligati a tornare in caserma sulle ginocchia?
Nessuno di loro prenderà parte all’eccidio. Eppure un memoriale consegnato alla Conferenza di Pace di Parigi, febbraio 1946, lo afferma esplicitamente. Ma non è tutto. Si parla di loro anche come responsabili dei rastrellamenti del 18 ottobre 1943, quando un migliaio di ebrei romani vennero avviati ai campi di sterminio. Un errore grossolano. In ottobre gli uomini di quel battaglione erano già da tempo nella caserma di Gries. Un errore che, pur appurato dagli storici, non è mai stato ufficialmente smentito.
•••
Negli anni del dopoguerra, su questa vicenda ci saranno polemiche e processi a non finire. Strascichi inevitabili. A partire dal 25 marzo 1944, quando al cimitero militare germanico di Pomezia, si tengono i funerali. I soldati caduti in Via Rasella trovano sepoltura in un prato lontano da casa. Trenta superstiti disertano e tornano a casa, in Alto Adige. Vengono denunciati e inquadrati in compagnie punitive, inviati al fronte orientale da cui non faranno più ritorno.
Poi silenzio assoluto.
Nel 1951, su proposta di Alcide De Gasperi, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi conferisce a Rosario Bentivegna la medaglia d’argento al valor militare. Negli anni Sessanta l’antifascismo militante riscrive alcuni particolari della nostra storia patria. Mussolini non godeva di alcun consenso, le foibe sono un’invenzione e quelli di Via Rasella non erano poco più che vigili urbani bensì delle feroci SS senz’anima. Fino a che, nel 1979, Umberto Gandini rompe l’incantesimo con quella famosa inchiesta, da cui emergono elementi nuovi. La sostanziale estraneità degli uomini attaccati in via Rasella alle SS, l’arruolamento forzato, la devozione cattolica e lontananza dal modello del soldato nazista, nonché i particolari della mancata partecipazione alla strage delle Fosse Ardeatine. Circa la sorte dei caduti, Gandini commenta: «Una volta premesso che nessun uomo merita di morire, ed accettata quindi solo per momentanea esigenza dialettica l’orribile logica che regola le vicende di guerra, si può dire che quel giorno di marzo, in via Rasella, morirono i soldati tedeschi meno tedeschi di tutti quelli che imperversavano in quegli anni per l’Europa; e i soldati tedeschi che meno di tutti “meritavano” quella fine, perché non avevano fatto assolutamente niente di male, non erano stati nemmeno messi nella condizione di poter fare del male».
Tante le cause civili intentate contro Bentivegna e gli altri in questi ultimi decenni. Tutte respinte. Con l’ordinanza del 16 aprile 1998, il giudice per le indagini preliminari di Roma dispone l’archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, iniziato a seguito di una denuncia presentata da alcuni parenti delle vittime civili dell’attacco. Il Giudice esclude la qualificazione dell’atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l’estinzione del reato a seguito dell’amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi “per motivi di guerra”. In seguito, la Corte di Cassazione continua (2007-2009) ad accogliere con regolarità disarmante i ricorsi e le richieste danni avanzati dalla figlia di Bentivegna e della Capponi, ribadendo che quello di via Rasella fu “legittimo atto di guerra contro il nemico occupante”. Ma non possono esistere, secondo il mio modesto parere, “atti di guerra” che possano considerarsi legittimi. Non ci sono vittime e carnefici in una storia come questa, ma solo vittime. Lev Tolstoj ha scritto che la pietà è una delle più preziose facoltà dell’anima umana. Eppure ad oggi, ventisei dei trentatré caduti di quella undicesima compagnia sono ancora sepolti anonimamente a Pomezia. Nessuno, né parenti né autorità politiche locali, dopo settantacinque anni, ha ancora chiesto di poterli riportare nella loro terra d’origine: l’Alto Adige - Südtirol.
“Sarà lecito almeno dire, – scrive ancora Bobbio – senza timore di essere accusati di essere fascisti o amici dei fascisti, che quei soldati morti in quell’agguato erano soggettivamente innocenti?” Da 75 anni si attende invano una risposta. ν

MENO TABLET, PIÙ MAGIA

I BAMBINI E IL GIOCO IN TRENTINO. ABBIAMO PROVATO AD INDAGARE TRA GLI ESPERTI DEL SETTORE LUDICO, DOMANDANDO QUALI SONO GLI INGREDIENTI PER OTTENERE UN “BAMBINO FELICE”. CON IL CLOWN RICO BELLO E MAGO DADO CERCHIAMO DI CAPIRE QUANTO SONO CAMBIATI I BAMBINI DOPO LA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA. LA PEDAGOGISTA ORNELLA DE SANCTIS AVVERTE: «I VIDEOGIOCHI SONO COME LE DROGHE»

Anche il Trentino è stato teatro, negli ultimi quindici anni, di una vera e propria “rivoluzione” dell’infanzia. È avvenuto lo stravolgimento radicale di ciò che significa essere bambini. L’arrivo di Internet in ogni casa, la moltiplicazione dell’offerta televisiva, la marginalizzazione dei prodotti cartacei sono stati i tratti principali di questa rivoluzione.
Conosciamo il problema dei bambini parcheggiati davanti alle tv, sui tablet, manipolati dalla pubblicità che pervade ogni media, ipnotizzati dai videogiochi. Questo crinale, che sembra catturarli inesorabile, compromette la loro capacità di meravigliarsi di fronte ad un piccolo trucco di magia accuratamente studiato e preparato: consumatori passivi di prodotti scadenti, si cibano di internet come fonte infinita di informazioni e lo usano senza un senso del limite. Ed in questo i bambini d’oggi assomigliano in tutto e per tutto ai loro genitori, agli adulti, troppo spesso incapaci di creare piccoli umani che un giorno dovranno essere autonomi e felici.
Abbiamo interpellato due professionisti che fanno dell’intrattenimento dell’infanzia in Trentino la loro occupazione quotidiana, facendo scoprire ai loro spettatori, come attraverso una scintilla, la bellezza senza tempo di un gesto magico o di una filastrocca. Sono Enrico Santini (alias clown “Rico Bello”) e Corrado Giannattasio (alias “Mago Dado”), impegnati in prima linea per continuare a presidiare il regno della “magia” dalle incursioni della tecnologia. Abbiamo poi interpellato Ornella De Sanctis, pedagogista e giudice al Tribunale dei Minori di Trento, che lancia l’allarme: «La tecnologia compromette l’immaginazione dei bambini».

RICO BELLO: «LA TECNOLOGIA RENDE MALEDUCATI»
Enrico Santini, meglio conosciuto come clown “Rico Bello”, è un veterano dell’intrattenimento per l’infanzia nel territorio trentino. Classe 1942, ha iniziato a calcare il palcoscenico nel 1959, prima nelle filodrammatiche, poi come presentatore e intrattenitore assieme al duo “Gegè-Martinez”, poi, dopo lo scioglimento del gruppo nel 1988, come clown. Davanti ai suoi occhi sono passate diverse generazioni di bambini trentini e molti, anche da grandi, si ricordano di lui. Enrico conferma il suo “impatto”: «Mi capita di incrociare degli uomini adulti, con i loro bambini per mano, che mi dicono: “Mi ricordo ancora della filastrocca, “Io sono Rico Bello, con la faccia da cammello…” È ancora oggi il modo con cui mi presento alle feste». I suoi inizi nei primi anni Sessanta raccontano di un Trentino profondamente diverso. Enrico fa vivere i ricordi: «All’epoca la televisione era poco diffusa e la gente riempiva i teatri. Era l’epoca d’oro dei circhi familiari, dove andavamo a “rubare” spunti e idee per le scenette». Quando a fine anni Ottanta iniziò a vestire la maschera del clown, Enrico si trovò di fronte una generazione nuova, quella dei bambini cresciuti con “Mazinga”, “Barbie”, “Big Jim” e le “Tartarughe ninja”, dove il modello dell’intrattenimento per l’infanzia era dettato dai fenomeni televisivi: «Acquistavo le musicassette e i cd con le sigle dei cartoni, per far ballare e cantare i bambini. Infarcivo i miei numeri con giochi di prestigio e confezionavo sculture di palloncini: sono arrivato a riuscire a realizzare oltre 100 forme diverse. Ancora oggi i palloncini sono sempre graditissimi». Nel corso dei decenni successivi che portano all’oggi, la scena della clowneria e dell’intrattenimento per l’infanzia è mutata profondamente. Con animo pungente, Enrico commenta: «All’epoca, eravamo in cinque a proporre questa formula, oggi siamo in trenta. Sembra che basti vestirsi con un naso rosso e fare le bolle di sapone per definirsi un “clown”». C’è poi il fenomeno dei “trucca-bimbi”, invitati alle feste per decorare i visi dei bambini con forme e colori, verso i quali Enrico non sembra nutrire particolare simpatia: «Il clown deve far ridere. Deve avere un repertorio di battute e saper improvvisare. Alcuni grandi clown non avevano nemmeno bisogno di truccarsi: pensiamo a Stanlio e Ollio o Buster Keaton». Insomma, non è il trucco dipinto in faccia a fare un clown. Contemporaneamente è mutata profondamente la capacità dei bambini di usare la loro fantasia: è questo l’aspetto che rammarica maggiormente Enrico. «La capacità dei bambini di immaginare un mondo fantastico – spiega – è stata danneggiata da televisione e tablet. C’è sempre il più grandicello che viene a disturbare il numero, perché l’ha già visto su internet». La tecnologia ha contribuito, secondo Enrico, a cambiare in peggio i comportamenti dei bambini trentini: «Una volta c’era più rispetto dell’adulto, una sorta di “timore” ad accostarsi all’intrattenitore e soprattutto c’era più curiosità. Oggi la soglia di attenzione di un bambino si è drasticamente ridotta: tenerlo incollato sul tuo numero per un’ora richiede un miracolo». Esistono ancora, tuttavia, i bambini curiosi, che magari si avvicinano al clown non per rovinargli lo spettacolo, ma perché ne sono genuinamente intrigati: «Succede ancora, per fortuna. A questi bambini, rivelo qualche trucco. Il problema è che oggi i bambini sono subissati da una marea di informazioni, sono frastornati». E, con tutte queste informazioni, si riduce lo spazio per restare meravigliati. Enrico Santini dà un consiglio agli adulti: «Giocate con i vostri bambini, disegnate insieme a loro, non parcheggiateli davanti alla tv e non demandate tutto alla scuola. Le maestre oggigiorno sono molto preparate, ma non possono fare miracoli quando la famiglia non stimola l’immaginazione». Enrico illustra una fotografia molto eloquente per definire il modo di fare dei bambini d’oggi: «Quando li metto in fila per regalare loro un palloncino a forma di spada, giraffa, ecc, solo uno su venti dice “grazie”. Quando questo accade dico ad alta voce: “Fermi tutti! Sapete cosa ha appena detto questo bambino? Una cosa incredibile! Ha detto “grazie…” Questo li fa ridere e li responsabilizza!»

MAGO DADO: «INCANTARE I BAMBINI È SEMPRE PIÙ DIFFICILE»
Mago Dado, all’anagrafe Corrado Giannattasio, è un prestigiatore tra i più attivi nel panorama trentino, grazie ad un’agenda fitta di feste di compleanno, matrimoni e feste aziendali. È tuttavia centrale nella sua attività professionale il contatto ravvicinato con i bambini, in particolare prima che scatti la fatidica adolescenza. Corrado conferma la sensazione che intrattenere i bambini di oggi con la prestidigitazione sia molto più difficile rispetto al passato: «Vedono i giochi su internet, si informano e credono, magari in maniera erronea, di conoscere i trucchi e qualche volta di essere capaci di replicarli». Qui sta l’abilità del prestigiatore, sottolinea Corrado: «Serve tanta esperienza, per poterli sorprendere con un trucco che non si aspettano. In generale è però molto difficile far credere ai bambini alla vera e propria “magia”». Un tempo, riflette il prestigiatore, intrattenere i bambini era la sfida più grande perché, se un adulto sa di essere di fronte ad un trucco, per il bambino il gesto dell’illusionista era autentica “magia”, un mistero capace di sbalordire: «Il senso della magia cresce anche con la pratica “attiva” del bambino, che si inventa un piccolo gioco, che magari noi adulti intuiamo subito, ma che comunque è un esercizio d’intelligenza per i più piccoli. Oggi al contrario, si limitano a replicare quello che vedono online. Sono esercizi standard a cui Internet ha tolto ogni personalità». Un altro elemento di criticità, per Corrado, sta nelle cosiddette “scatole di magia” spesso sponsorizzate da maghi famosi grazie alla tv: «Ho visto in alcune “scatole” giochi molto complicati, magari da fare con le carte o che richiedono capacità “illusionistiche” superiori. Non sono adatte ai bambini, perché non favoriscono una crescita personale. Per questo non aprirei un negozio di magia a Trento, il rischio è promuovere una cultura illusionistica “standardizzata”. Togli il bello della scoperta ad un bambino, lo fai per vendere e non semini niente». Quando veste i panni di “Mago Dado”, Corrado ha una “politica” particolare, cerca di non dare subito confidenza ai bambini, non prima dello spettacolo: «Dare confidenza ai bambini è un’arma a doppio taglio, perché ti consente di entrare in sintonia con il tuo pubblico, di ispirare simpatia e di “prepararli” in qualche modo. Ma contemporaneamente, la confidenza permette a quelli più “sfacciati” di interagire con il mago in maniera più spudorata, con il rischio di compromettere lo spettacolo per tutti. Questo vale soprattutto per i bambini più grandi: con quelli più piccolini, farsi voler bene prima dello spettacolo in generale è una buona idea, per evitare di spaventarli o confonderli troppo». È importante, sottolinea Corrado, avere un buon controllo dello spettacolo ed avere un repertorio adatto a varie fasce d’età: «Quando vado a fare spettacoli alle scuole materne, le maestre si complimentano perché faccio magie idonee per l’età dei miei spettatori. Lo stesso vale quando sono più grandi: ho avuto grandi soddisfazioni anche con i ragazzi adolescenti, magari attorno ai 14 anni, e questo mi ha piacevolmente sorpreso. È un’età, quella, in cui è importante imparare a stupire per facilitare le relazioni sociali».

ORNELLA DE SANCTIS: «LO DICONO LE NEUROSCIENZE, LA TECNOLOGIA COMPROMETTE L’IMMAGINAZIONE»
Ornella De Sanctis è una pedagogista specializzata nell’età dello sviluppo, nell’arte-terapia, giudice presso il Tribunale dei Minori di Trento. Ha al suo attivo la pubblicazione di diversi studi, tra cui il saggio “L’educazione e il moderno”, edito da Liguori. La sua è una voce autorevole e desta preoccupazione quando afferma: «La tecnologia ha un effetto distruttivo sulla fantasia e sulla creatività dei bambini, in particolare nella fascia d’età 0-5 anni: queste capacità vengono compromesse. È ormai un dato acquisito e confermato anche dalle neuroscienze». La dottoressa De Sanctis rintraccia la responsabilità di questo declino critico nelle capacità immaginative che dovrebbero caratterizzare l’infanzia, nell’incapacità dei familiari di opporsi alle mode tecnologiche del momento: «Occorre la capacità di dire dei “no” e ciò è dovuto alla mancanza di consapevolezza dei danni che questi strumenti possono generare. Come genitori, non dobbiamo avere timore solo che i nostri figli assumeranno sostanze stupefacenti, perché queste sono droghe tecnologiche». Gli adulti, secondo De Sanctis, mettono in mano ai bambini degli strumenti potentissimi che nemmeno gli stessi adulti sanno gestire: «Nasce da qui il fenomeno del cyberbullismo. Noto che nei gruppi chat tra bambini delle elementari si utilizza un “plus” di cattiveria nei confronti degli altri, con parole che probabilmente non esprimerebbero in un confronto diretto e personale». La vittima del cyberbullismo non è percepita come reale, ma sono reali le conseguenze sulla salute del bambino, spiega la pedagogista: «È un analfabetismo emozionale; se non ti abitui a litigare, a gestire i conflitti, poi in adolescenza si genera un isolamento e si creano adulti sofferenti». La mente va al fenomeno degli hikikomori, gli adolescenti giapponesi che vivono in completo isolamento, chiusi nella loro stanza e collegati al mondo via web: «Non è un fenomeno solo giapponese, gli hikikomori esistono anche in Trentino – sottolinea De Sanctis – e sono finiti all’attenzione della Procura della Repubblica». De Sanctis non sottovaluta poi il rischio che i bambini vengano “contattati” da persone disturbate proprio attraverso i social network e le piattaforme di gioco online: «È accaduto che i minori venissero adescati attraverso Candy Crush, gioco amato dai più piccoli. L’uomo nero esiste e può utilizzare quegli strumenti». Sono proprio queste piattaforme di gioco online che sollevano i maggiori interrogativi, perché la loro struttura, a livelli “bloccati”, fa in modo che i bambini siano prigionieri del gioco, perché la loro mente torna sempre lì. Un nuovo livello significa nuove funzioni sbloccate, nuove “endorfine” emesse in un turbinio di suoni e colori, in una logica che è davvero simile a quella delle droghe. Senza contare che le aziende produttrici di questi giochi online studiano metodi sempre nuovi per tener catturata l’attenzione. De Sanctis mette in evidenza come questa problematica sia insita nei videogiochi: «Il videogioco manovra e gestisce la realtà di un bambino. Per questo il bambino che si trova di fronte al clown gli strappa di mano il trucco magico. Gli strumenti tecnologici e videoludici tendono a essere “la realtà” dei bambini, annichilendo la possibilità di meravigliarsi di fronte ad un piccolo trucco magico». Su questo, De Sanctis manda un allarme all’indirizzo dei genitori: «I bambini non devono sempre “fare qualcosa”. Anche durante l’infanzia c’è un tempo in cui si può guardare il soffitto. Imparare a gestire la noia è essenziale per poter essere autonomi da grandi». La pedagogista esprime anche perplessità sulla possibilità di un “Internet per bambini”, ovvero quelle versioni edulcorate del web che passano attraverso il “parental control” (che i bambini possono imparare piuttosto in fretta ad aggirare) o attraverso portali specifici dedicati all’infanzia: «L’uso monitorato di Internet può essere visto favorevolmente se permette di trovare delle immagini per una ricerca scolastica o per soddisfare qualche legittima curiosità personale. Ma credo che comunque siano scorciatoie cognitive. Occorre saper usare un dizionario o un’enciclopedia, non tanto perché lì si trovino le informazioni, ma perché formano un metodo per la conoscenza». Insomma, le enciclopedie, relegate ormai nel passato dell’editoria, in questa luce appaiono come imprescindibili strumenti per il domani.

ISOTTA CHE SA SOGNARE

LA VOCE È UNO STRUMENTO POTENTISSIMO, LO SA BENE LA ROVERETANA ISOTTA TOMAZZONI CHE, A SOLI 22 ANNI, GIÀ FINALISTA A RDS ACADEMY E CON UN ALBUM ALL’ATTIVO, SI DIVIDE TRA STUDIO E MUSICA

Cresciuta con la passione per le lingue, la musica e la scrittura, oggi la roveretana Isotta Tomazzoni di anni ne ha 22 ed è un’artista emergente poliedrica e carismatica. Come cantautrice ha pubblicato un cd di debutto ad inizio 2018, “Remote Influence”, un lavoro composto da 8 brani: 4 in lingua inglese e 4 in italiano, tra cui il singolo “Sudden Drop” lanciato sul suo canale Youtube. Un miscuglio di rock, elettronica e pop che sta ricevendo numerosi feedback positivi. Dopo questo cd già pubblicato è in lavorazione un nuovo lavoro e un audiolibro di poesie scritte da lei.
Isotta ha voluto inoltre tentare il successo a “Rds Academy”, il talent per aspiranti conduttori radiofonici in onda su Real Time, un’avventura televisiva e radiofonica dove, contro ogni sua aspettativa, è arrivata in finale rivelandosi la più giovane promessa dell’Academy.
Una ragazza che osa sognare ma non dimentica di tenere i piedi per terra e studiare, nello specifico Scienze Linguistiche per le relazioni internazionali, con una tesi sul ruolo della metafora nei testi musicali di Bob Dylan. In questo contesto si è aggiudicata la vittoria alla Chinese Bridge Competition che, l’anno scorso, l’ha portata in Cina per un mese.

Raccontaci di te e del tuo background. Ancora non sapevi leggere e scrivere ma già eri appassionata di musica, quando è nato tutto?
“Mi sono avvicinata alla musica con il ballo, ho iniziato danza classica a sei anni, a tredici sono stata presa in una compagnia di danza modern-jazz con il maestro Fabrizio Bernardini. A nove anni ho cominciato a studiare pianoforte alla Scuola musicale di Rovereto.
Da piccola ascoltavo tantissima musica, quando tornavo a casa dalle elementari la prima cosa che facevo, ancora prima della merenda, era mettere della musica e ballare. I Beatles, Modugno, i Queen, Daniele Silvestri e molti altri, fortunatamente i miei genitori ascoltavano buona musica di ogni genere, potevo spaziare da Eminem a Bethooven. E poi adoravo i musical, in particolare il compositore Andrew Lloyd Webber e il suo Fantasma dell’opera.
Ricordo che nel salone di casa avevamo un tappeto con dei disegni geometrici e simmetrici ed io mi mettevo lì a ripassare le lezioni di danza classica cercando di non “sgarrare” posture e passi”.
Quando hai capito di voler fare questo mestiere ed in particolare divenire una cantautrice?
“Ho sempre sentito l’esigenza di dire la mia in musica, scrivere è stato un bisogno innato, naturale. Ho iniziato a 15 anni ed ho continuato ad accumulare testi su quaderni, taccuini, dove capitava. È stato nel 2017 insieme ad un amico con la mia stessa passione che tutto ha preso forma”.
Parliamo dell’arrangiatore e compositore tuo coetaneo Jacopo Ulacco, giusto?
“Sì, io e lui abbiamo fatto il liceo insieme, musica e scrittura erano la passione di entrambi, non poteva che nascere un’amicizia. Abbiamo scritto un musical rock in italiano all’età di 15 anni. E nel 2017 abbiamo realizzato il cd insieme. È stata una grande soddisfazione perchè è piaciuto a persone di età e generi molto diverse e poi, cosa più importante, lo abbiamo fatto con le nostre sole forze”.
La tua prima volta sul palco?
“Respiro aria di teatro da che ho memoria, mia madre era direttrice del bellissimo teatro Zandonai di Rovereto ed io, fin da piccina, aspettavo impaziente l’occasione di sgattaiolare sul palco, in maniera non ufficiale e furtiva. La mia prima vera volta sul palco è stata, avevo 6 anni, in un classico villaggio turistico ma la prima performer preparata è stata con la danza classica a 7 anni”.
La volta più importante?
“Il palco che mi ha dato di più, per ora, è stato quello di Area Sanremo nel 2017: un concorso affiliato a Sanremo Giovani in cui sono arrivata in semifinale. A quel punto ci hanno chiamati a cantare nelle piazze del Festival, lì ho portato sul palco, per la prima volta, tre miei pezzi inediti ed è stata un’emozione fortissima quando molte persone tra il pubblico mi hanno chiesto chi fossi e dove si potevano acquistare i miei cd”.
Come sei arrivata a Rds Academy?
“Rds è una delle radio che ascolto, amo la radio in generale e mi piace l’idea di farla, ho molti progetti artistici che mi piacerebbe realizzare in quest’ambito. È successo tutto quando mi hanno intervistata per promuovere il mio album, lì ho capito che era un mondo a me congeniale ed ho inviato un provino, senza aspettarmi una chiamata. Invece tra 5mila provini ne hanno selezionati 50 e siamo arrivati davanti ai giudici, fino alla scrematura finale di 9 concorrenti”.
Hai partecipato con successo a questo talent. Ci racconti brevemente quest’esperienza e quanto è stata importante per te?
“Questo percorso per me è stato una vittoria già quando sono arrivata ai provini. Sono grata alla trasmissione, l’ho trovata meritocratica, anche se mi è sembrato paradossale che un talent per la radio si svolgesse in televisione con una pressione notevolmente maggiore alla sola prova radiofonica. Arrivare alla puntata serale dove la visibilità è maggiore, contava molto per me. Ho avuto l’opportunità di affrontare alcune prove speciali, tra le quali l’intervista alla famosa Emma Marrone. Ad ogni puntata si rischiava di uscire e per questo ho affrontato tutte le prove come si trattasse di una finale. Voglio credere che questo traguardo non rappresenti la fine di un’esperienza ma si tratti di un nuovo inizio”.
A cosa pensi quando ti trovi davanti ad un microfono?
“Credo non ci sia cosa più piacevole di avere dall’altra parte qualcuno che ti ascolta. L’ascolto è una cosa bellissima, dalla tua voce gli altri possono immaginare di tutto, quello che vuoi e che non vuoi. La voce è uno strumento potentissimo tra mistero ed immaginazione, va oltre la parola, è un gioco di interpretazione, di non detto e di pause, bisogna saper dosare voce e parola, esattamente come musica e pause”.
Quanto è importante mettere in musica le tue parole e non quelle di terzi?
“Scrivere e mettere in musica i miei pensieri è per me una necessità. Certo, se gli altri mi proponessero le loro storie, sarei probabilmente felice di raccontarle ma l’interprete è un altro lavoro ancora”.
Oggi è impossibile non essere anche imprenditore/agente di se stessi in questo mondo. La tua esperienza?
“Raggiungere un proprio stile e una propria identità è importante, serve carisma in questo ambiente e non è sufficiente il talento per emergere. Per essere manager di se stessi serve qualcuno che ti dia costantemente dei feedback obiettivi sul tuo lavoro, dei riscontri anche severi a volte. Io ho la mia famiglia che mi sostiene ed è sempre presente, mi aiuta molto in questo ruolo. E poi bisogna sapersi muovere, averi i contatti giusti, non fermarsi mai e cercare di essere sempre al massimo della competitività”.
I talenti italiani si affermano spesso con maggior successo all’estero. È l’Italia che non sa valorizzarli o è l’estero che affascina molto di più?
“Credo tutte e due le cose. In Italia si valorizzano molti talenti esteri ma è anche vero che all’estero si valorizzano molti talenti italiani, penso ad esempio alla Francia, al suo essere esterofila in molti campi, non di meno in quello artistico, proprio come l’Italia”.
Tre parole per descriverti.
“Audace, nel senso di coraggiosa, creativa e solare”.
Chi è Isotta al di fuori della musica?
“Sono un’avventuriera ed amo molto viaggiare ma sono anche un‘abitudinaria, quindi torno spesso ai miei luoghi del cuore. Torno a quelle relazioni, poche ma buone, che ritengo importanti. Amo il contatto con la natura e gli animali, credo sia un valore da coltivare in un mondo che si sta autodistruggendo. Adoro nuotare e andare per boschi. Mi definisco “folle in un equilibrio stabile”.
Quali sono i tuoi punti di forza e quali le tue debolezze?
“Sangue freddo e coraggio credo siano i miei pregi più importanti. Sono una persona complicata e questo a volte è una risorsa, altre una debolezza. E poi sono disorganizzata, anche se sto lavorando molto per migliorarmi, ho sempre in mente di fare un sacco di cose”.
A che tipo di donna o artista ti ispiri per creare il tuo stile?
“Non ce n’è una in particolare, mi piacciono le donne forti, quelle che si tirano fuori dal mucchio con timbri riconoscibili e diversi dal solito, innovative e originali”.
Il duetto dei tuoi sogni:
“Direi con Alanis Morissette o Lady Gaga”.
Quali sono i tuoi punti fermi?
“Sicuramente le relazioni: famiglia, amici e amore. Sono una persona che, per quanto gira e fa, ha bisogno dei suoi nidi e le relazioni sono i miei nidi”.
Come e quanto il successo cambia le persone?
“Il successo non è la notorietà, bisognerebbe sempre separare le due cose. Il successo è fatto di tanti piccoli passi, piccole soddisfazioni e qualche fallimento, qualche no che bisogna imparare ad incassare fin da piccoli; in questo senso il successo è un percorso, un viaggio che porta non alla notorietà ma a piacerti, ad essere orgoglioso di te stesso”.
Se non avessi intrapreso questa carriera, quale lavoro avresti scelto?
“Credo che avrei scelto di essere una diplomatica per i diritti umani, un campo difficile ma dove c’è tanto bisogno di persone in grado di cambiare le cose”.
Un sogno nel cassetto o un progetto da condividere con noi?
“Tanti. Ricollegandomi alla risposta precedente, mi piacerebbe attraverso la musica e i guadagni, che in questo campo a volte possono essere importanti, coniugare l’aspetto benefico riguardante i diritti umani con la mia passione per la radio magari”.
Come ti vedi tra vent’anni?
“Spero di costruirmi una famiglia con figli un domani, non so se in Italia o Inghilterra o in un altro luogo all’estero. Mi piacciono molto i paesi del nord, la pioggia. Spererei di essere direttrice artistica o di fare comunque un lavoro inerente la musica con la possibilità, a fine giornata, di rintanarmi in un grande studio di legno mentre fuori il tempo è uggioso”.

IL TRENTINO DI PINKETTS

IL 20 DICEMBRE 2018 È MORTO ANDREA G. PINKETTS, LO SCRITTORE MILANESE CHE NEI SUOI LIBRI COLORAVA IL NERO CON L’IRONIA E CON GLI EPISODI AUTOBIOGRAFICI FATTI RIVIVERE AL SUO ALTER EGO LAZZARO SANT’ANDREA. FORSE NON TUTTI SANNO DELLE SUE ORIGINI TRENTINE E DELLE FREQUENTAZIONI ALLA COLONIA ESTIVA DI BELLAMONTE, IN VAL DI FIEMME. E PER QUESTO NEI SUOI LIBRI NON POTEVA CHE PARLARE DEL TRENTINO CON AFFETTO ED IRONIA

Nel 1991 Andrea G. Pinketts iniziava così il suo primo libro “Lazzaro, vieni fuori”: “I fatti, i luoghi e i personaggi di questo romanzo sono puramente immaginari. Mi si potrebbe obiettare che esiste una regione chiamata Trentino Alto Adige e un paesino chiamato Bellamonte. Mi sento obbligato a specificare che sia il Trentino che Bellamonte, com’è noto, li ho inventati io”. Ed è a Trento che inizia la storia narrata da Pinketts con il suo stile inconfondibile che fa dire a Lazzaro Sant’Andrea: “La stazione delle corriere di Trento aveva raccolto l’autunno con la fredda, burbera, disponibilità della gente di montagna”. Per poi proseguire poco dopo: “Avevo trascorso la notte girando per Trento che, pur non essendo Las Vegas, tra droga, terrorismo e omicidi rituali si era adeguata agli anni settanta. Negli anni Ottanta. Non aveva però sbiadito i colori rosso vino e azzurro cielo che sbandierava mia nonna a chiunque incontrasse a Milano. Non aveva perso il dialetto, un veneto un po’ più ostico nella quotidianità. Non aveva dimenticato che, essendo circondata da montagne, era meglio arrendersi”. Il primo trentino che Lazzaro incontra nel libro è un autista dell’Atesina (l’attuale Trentino Trasporti) che “distribuiva bonaria autorità, con saluti personalizzati al suo pubblico equipaggio. «Ciao Bepi, come statt?». «Stago ben, grazie e ti?»”. Quando l’autista “dopo aver appurato che tutti stessero bene” gli si pianta davanti turbato dalla “non conoscenza” di quello “straniero con postumi di sbornia”, Lazzaro gli ripete la frase magica: «Ciao Bepi, come statt?» ricevendone in cambio un «Stago ben, grazie e ti?» ed a quel punto si ristabilisce l’autorità di Bepi e del suo ruolo. E il viaggio può iniziare, lasciando Trento, come dice Lazzaro “per proseguire un itinerario sentimentale verso Bellamonte, Samarcanda delle mie estati adolescenti”. E quando Dea, una ragazza conosciuta sulla corriera gli chiede come mai sta andando proprio lì, lui le risponde: «Questioni sentimentali… non fraintendermi, ci andavo da ragazzino le estati, in collegio…» e poi specifica: «una scuola privata di Milano aveva delle sedi estive, si può dire anche colonie ma fa più malinconico». Si tratta dell’Istituto San Peltro (nella realtà il San Celso) riguardo al quale più avanti specifica: “Ci ero andato ogni luglio per sette anni, da bambino a teddy-boy”.
Sono molti i riferimenti al Trentino che Pinketts fa nel suo primo libro. Dal tragitto da Trento a Predazzo e poi per Bellamonte alla descrizione che mescola realtà e fantasia dei luoghi e dei locali di questa parte della Val di Fiemme. L’Istituto San Peltro “solido come un’accademia militare per cadetti”. L’Albergo Antico che “assomigliava, più che a un hotel di montagna, a quelle casette da cui esce l’uccellino negli orologi a cucù”. E la Baita Alpina che nei ricordi adolescenti di Lazzaro era “una specie di bar trattoria con piatti tipici, che teneva aperto sino all’una di notte. Vi si potevano incontrare boscaioli e turisti, ragazze e vecchiacce, ragazzacce e vecchie. Per tutti i gusti” ma che il proprietario Mimì la civetta ha “rammodernato” trasformandola in locale napoletano: “il bar in legno era lo stesso, identiche le teste di cervo impagliate, uguali sgabelli e tavoli medioevali. Ma proprio sopra quei tavoli, dei grossi televisori trasmettevano in circuito chiuso una commedia in napoletano. Il video di “Natale in casa Cupiello”. Pinketts era così: mescolava la realtà alla fantasia, le cose successe nella sua vita a quelle che capitavano al suo alter ego Lazzaro Sant’Andrea. Nella Bellamonte che lui descrive (e dove davvero era stato da bambino alla colonia San Celso) si muovono nani e belle donne, famiglie ricche che nascondono segreti, spacciatori, assassini. Ma ci sono anche portieri d’albergo che offrono innumerevoli giri di grappe fatte in casa, commesse di bazar che propongono, tra i prodotti tipici e le piccozze per turisti, lontani scampoli di nostalgia. Ma non mancano parti del libro ambientate a Predazzo che “senza essere ambiziosa, non era immodesta”, dove Lazzaro si reca alla SIP per telefonare (negli anni novanta non tutti avevano il cellulare), dove sono ambientati violenti scontri tra spacciatori di droga e frequentatori di un Centro Sociale e dove in piazza dopo lo spettacolo di un nano prestigiatore che diventerà suo amico si esibiscono i “Giovani Squadristi: tre settantenni in camicia nera con foulard rosso, per evitare accuse di apologia, che proponevano un repertorio musicale di un ventennio famoso”. Sarà il ritrovamento nella sua stanza all’Albergo Antico di un ritaglio di giornale di alcuni mesi prima, con la notizia della scomparsa di un bambino, che catapulterà Lazzaro e il lettore in un’indagine che avrà sviluppi inaspettati e neri che qui non è il caso di anticipare. Chi volesse può ripercorrerla nel libro “Lazzaro, vieni fuori”, edito da Feltrinelli.
La mamma di Pinketts aveva origini trentine, come la nonna (mentre il nonno, raccontò lui in un’intervista, aveva origini tedesche). E la descrive così, con la sua ironia, la nonna, in un altro suo libro, “Il senso della frase”: “un essere primordiale sceso dalle montagne del Trentino a cui volevo un mare di bene”, e che: “si rifiutava di parlare italiano e si esprimeva in un ibrido tra il trentino della prima guerra mondiale e un suo personalissimo idioma”. Pinketts tornò più volte in Trentino, anche dopo essere diventato uno scrittore affermato, l’ultima delle volte nel marzo 2018 all’interno del “Festival del Nuovo Rinascimento” al Palazzo delle Albere di Trento. Ma qui abbiamo voluto ricordare altre sue visite trentine. Nel 1999 Pinketts fu ospite a Predazzo all’interno di una serata presso il cinema teatro comunale che aveva come titolo “La rossa e il nero”. La “rossa” era Pixi La Rouge che presentò il suo libro “A scuola di seduzione” mentre il “nero” non poteva che essere Pinketts che presentò, oltre naturalmente a “Lazzaro vieni fuori” anche “Un saluto ai ricci” e “E chi porta le cicogne”. Ecco le parole di Francesco Morandini, il bibliotecario di Predazzo che aveva moderato quell’incontro: «in quell’occasione Pinketts aveva raccontato alcuni aneddoti delle sue estati a Bellamonte presso la colonia S. Celso dove trascorrevano le vacanze i ragazzi della “Milano bene” che erano noti per la loro, diciamo, vivacità». Nel 2000 Pinketts fu invece a Levico Terme dove al Palazzo delle Terme, all’interno della rassegna “Sfogliando l’estate” (in quell’occasione tra il pubblico c’ero anch’io) presentò il suo libro “Il dente del pregiudizio”. Come era nel suo stile Pinketts chiese se poteva avere un Cuba Libre in compagnia del quale e del suo inseparabile sigaro lesse alcuni brani del libro con la sua voce tonante. Anche in quell’occasione lo scrittore parlò dei suoi legami con il Trentino. Stefano Ravelli, Amministratore Delegato dell’APT Valsugana ricorda Pinketts come «un personaggio sicuramente istrionico e non convenzionale con il quale avevamo avuto il piacere di cenare e che ci aveva allietato con numerosi racconti sulla sua vita privata a Milano».

Con l’aiuto di Andrea Carlo Cappi, scrittore e traduttore di Milano e grande amico di Pinketts, riviviamo un aneddoto accaduto a Trento sempre nel 2000. «Stavamo presentando al Giubbe Rosse il libro “Un oceano di mezzo”, un’ antologia-gemellaggio tra scrittori italiani e messicani. Tra gli autori italiani c’eravamo io, Pinketts e Giancarlo Narciso che è uguale a Kit Carson e insieme a Pinketts che somigliava a Tex Willer sembravano davvero la mitica coppia dei fumetti della Bonelli Editore. In quell’occasione c’era anche il console del Messico a Milano, e la città era quasi blindata per motivi di sicurezza. Nel corso della serata, Pinketts diede in pubblico un clamoroso pizzicotto (amichevole ma, suppongo doloroso!) alla guancia del console, rischiando l’incidente diplomatico. A una presentazione successiva a Milano, cui parteciparono anche alcuni degli autori messicani, Andrea rivelò che dietro tutto questo c’era un conto in sospeso: un Pinketts era caduto nella battaglia di Fort Alamo contro i messicani del generale Santa Ana. In quel momento uno degli scrittori messicani, David Toscana, si alzò, dicendo che anche uno dei suoi avi era caduto nella stessa battaglia, ma combattendo dall’altra parte. Così i due scrittori si offrirono a vicenda whiskey del Tennessee e tequila, chiudendo con un brindisi una questione aperta dal 1836, che dal Texas era arrivata a Milano passando per Trento».

LA TERZA VOLTA DI “STRIKE”: NEL MAGICO VORTICE DELLE IDEE

CHE COSA COMBINANO I GIOVANI D’OGGI? QUALCUNO DI LORO FA IL CANTANTE RAP, C’È POI CHI FA IL CUOCO, CHI L’ALLEVATRICE DI ALPACA, CHI IL DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA... ANCHE QUEST’ANNO, UNA VENTATA DI PROGETTI INNOVATIVI SONO EMERSI DALL’ORMAI CONSOLIDATO CONTEST CHE VUOLE RACCONTARE, E PREMIARE, L’INTRAPRENDENZA DEGLI UNDER 35...

Giunto alla terza edizione, l’evento annuale dedicato ai progetti innovativi dei ragazzi, trentini e non, è culminato nella serata di presentazione delle 10 migliori idee.
Si parla tanto di ragazzi rassegnati, con poche speranze per il futuro, magari costretti ad andare via dall’Italia per trovare un lavoro più stabile e che risponda maggiormente alle loro aspettative e al loro percorso di studi. E forse non si parla mai abbastanza di quelli che invece ce la mettono tutta per restare, si impegnano e con volontà, determinazione e talento hanno il coraggio di mettersi in gioco. Anche quest’anno è tornato il contest Strike! Storie di giovani che cambiano le cose, promosso dall’Agenzia per la Famiglia, Natalità e Politiche Giovanili (APF), da Fondazione Demarchi, in collaborazione con l’incubatore di imprese sociali Trentino Social Tank e la Cooperativa Mercurio. Si tratta di un progetto che mira a valorizzare i talenti dei giovani attraverso la partecipazione ad un percorso che seleziona e premia le loro storie di successo, i loro Strike appunto, i sogni realizzati o gli obiettivi raggiunti, anche dopo qualche difficoltà, per incoraggiarli e contribuire attraverso il loro esempio a stimolare l’iniziativa di tanti altri giovani a fare lo stesso. Il bando è aperto agli under 35 nati o domiciliati a Trento, Bolzano e province limitrofe (Verona, Vicenza, Belluno, Sondrio e Brescia) che abbiano voglia di raccontare e condividere la loro avventura. Le storie possono riguardare ambiti diversi: dal mondo dell’impresa al volontariato, al lavoro come liberi professionisti, e in diversi settori: culturale, sportivo, della politica o della tutela ambientale, purché, naturalmente, abbiano raggiunto un traguardo concreto da raccontare.
Ma come funziona questo percorso? I ragazzi hanno dovuto prima candidare le loro storie tramite un video di 5 minuti su www.strikestories.com, dopodiché i 10 protagonisti selezionati hanno avuto la possibilità di partecipare ad un laboratorio formativo sulle tecniche di storytelling insieme ai professionisti della Scuola Holden di Torino, per apprendere come comunicare al meglio il racconto della propria esperienza durante la serata conclusiva, davanti al pubblico e a una giuria. Il 10 novembre, infine, presso lo Smart Lab di Rovereto, si è tenuta quindi la StrikeStoriesNight, la serata di premiazione delle storie migliori. A presentare l’evento la giornalista Francesca Re, insieme al vincitore della scorsa edizione Davide Pinamonti, membro dell’E-agle Trento Racing Team, in collaborazione con il giornalista Paolo Trentini; nelle vesti di giurati invece il regista Swan Bergman, l’esperto di innovazione Alessandro Garofalo, la ex campionessa di ciclismo Diana Žiliute, dj Vic, Martina Bosetti Bertagnolli, responsabile della comunicazione delle grappe Bertagnolli e un’altra vincitrice dell’edizione 2017 Anna Fiscale, di Progetto Quid.
Come da tradizione ormai consolidata, dopo i saluti istituzionali a introdurre l’evento ci ha pensato Alessandro Garofalo, con le sue pillole di saggezza, dispensate ai giovani protagonisti, una serie di concetti chiave da tenere presente per fare innovazione: indipendenza, viaggio, serendipità, rottura del paradigma, creatività come democrazia dal basso, interculturalità, paradosso, frequentare la bellezza e ricordare la tradizione. Dopodiché, a turno, i 10 ragazzi sono saliti sul palco per raccontare i propri progetti, intervallati dalle domande del pubblico e spronati a rimanere nei tempi durante la loro presentazione, da un simpatico T-Rex del Piano Giovani di Zona di Alto Garda e Ledro, pronto ad intervenire, in caso di sforamenti delle tempistiche. In questo clima vivace e divertente anche quest’anno, ne sono emerse davvero delle belle! C’è stato chi alleva alpaca in Val di Cembra per ottenere la lana, chi si è messo a cucinare nella propria cantina e a registrare delle video ricette dei propri squisiti manicaretti, chi ha avuto l’idea innovativa, e sostenibile, di ricavare dei mattoni dal riciclo degli pneumatici.

Ma chi sono stati i vincitori di questa terza edizione? Sul podio, a pari merito, sono finiti i membri del progetto Diamoci un Taglio, Michele Purin e infine Emanuele Del Rosso.


Donare capelli per i pazienti oncoLOgici
“Diamoci un taglio” è un progetto dell’Associazione RagionevolMente, i cui membri, Serena Manara, Moreno Zolfo, Giulia Fracassi, Veronica Foletto e Orsetta Quaini, hanno organizzato e promosso in collaborazione con la LILT, la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori di Trento e Winner’s Capelli Vincenti, un centro di infoltimento capelli non chirurgico di Verona, una raccolta di capelli donati volontariamente dalle persone. In pratica, per ogni 800 grammi di capelli raccolti, Winner’s Capelli Vincenti dona all’Associazione RagionevolMente una parrucca in capelli naturali, che tramite la Lilt verrà messa a disposizione dei pazienti oncologici che ne fanno richiesta. Anche attraverso alcuni saloni che aderiscono all’iniziativa di RagionevolMente è inoltre possibile donare i propri capelli. (Per maggiori informazioni: http://diamociuntaglio.ragionevolmente.it/).

15 milioni per “voldemort”
Michele Purin, 25 anni, è invece il giovane direttore della fotografia del medio metraggio “Voldemort origins of the heir”, il prequel della famosa saga di Harry Potter ideato da Gianmaria Pezzato, che ha ottenuto più di 15 milioni di visualizzazioni sul canale Youtube.
Una produzione tutta italiana, girata in Trentino, dal ridottissimo budget, che è stata resa possibile grazie ad una raccolta fondi sulla piattaforma di crowdfunding Kickstarter. La vicenda è tutta incentrata sulla figura di Voldemort, l’accerrimo nemico del maghetto uscito dalla penna di J.K. Rowling Harry Potter, di cui viene raccontata l’esistenza quando ancora non era il malvagio signore oscuro tanto temuto da tutti. Nel film, a rivestire il ruolo di Tom Riddle, il giovane Voldemort appunto, l’attore trentino Stefano Rossi.

SATIRA DISEGNATA
Il terzo vincitore è stato poi Emanuele Del Rosso, un vignettista ed esperto di comunicazione di Trento, classe 1986, che si è aggiudicato il premio Libex 2018 per le sue vignette politiche e che con il progetto #MyTakeOn vuole riportare la discussione politica sulle strade.

UN AIUTO PER IL DISAGIO
Anche quest’anno c’è stato un quarto vincitore, quello che meglio ha saputo conquistare la simpatia e l’affetto del pubblico; stavolta ad aggiudicarselo è stato il collettivo G. a. G. a. Vicenza, acronimo che sta per Gruppo Ascolto Giovani Arcobaleno. Un gruppo formato da 20 volontari impegnato nell’aiutare migranti, richiedenti asilo, vittime di tratta, omosessuali o transessuali, vittime di bullismo, di discriminazione, di violenza oppure che sono state cacciate di casa. I membri del gruppo prestano sostegno nel loro centro a chi vi si rivolge, fornendo un servizio di ascolto, orientamento, consulenza alla pari (peer to peer) e ricorrendo, per i casi più delicati ed impegnativi, anche al supporto di professionisti come avvocati, medici e psicologi. L’obiettivo è dare una risposta e riuscire a rassicurare le persone in difficoltà, facendo sentire loro che non sono sole.
Il gruppo ha vinto i 500 euro di premio del pubblico oltre al premio Storytelling, conferito dall’azienda leader nel settore della cartotecnica Favini, “per la migliore esposizione e la capacità di creare come nessun altro una grande empatia con il pubblico”, che consisteva in un set di carte di pregio.

I tre vincitori prescelti dalla giuria si sono aggiudicati invece un assegno da 1000 euro. In tuti i casi si tratta di una cifra simbolica, che vuole essere un riconoscimento e uno sprone a continuare la propria attività. Il premio dovrà infatti essere utilizzato per organizzare un evento, col supporto organizzativo di Trentino Social Tank, che possa accrescere la propria visibilità: “Questi premi sono importanti, gratificano, ma tutti i finalisti di questa sera avranno grandi possibilità anche se non hanno vinto, ha affermato a fine serata il presidente della giuria, il regista Swan Bergman, Tutti i premi ottenuti questa sera sono simbolici, non cambiano la vita, ma la cosa più importante è la visibilità delle storie e tutti voi beneficerete molto dalla visibilità che avete ottenuto.”

Tra gli altri vantaggi, della partecipazione al contest per i 10 finalisti, c’è anche la possibilità di vedere pubblicate in un volume le loro storie. Inoltre, i quattro vincitori potranno sostenere un colloquio privato con un giurato a loro scelta, per approfondire delle tematiche e ricevere utili consigli e indicazioni. Qualche opportunità in realtà è emersa già durante la serata di presentazione: a Michele Purin infatti, il direttore della fotografia in erba, è stata offerta in diretta una proposta di collaborazione per una serie tv, mentre tra i finalisti, ad Ilaria Baldo, l’allevatrice di alpaca cembrana, è stato proposto di rifornire con il proprio prodotto un’azienda tessile che produce capi di abbigliamento di lusso. Insomma, la conferma che le opportunità non mancano, anche in un contesto lavorativo difficile come quello attuale. Occorre solo trovare una strada convincente e seguirla con costanza, impegno ed entusiasmo. E così facendo, prima o poi gli Strike arrivano.