MAURIZIO ZANOLLA “MANOLO”: COME HO VINTO LA GRAVITÀ



Intervistarlo è difficile. Non solo perché lui è molto restio all’esposizione mediatica. Sì, insomma, non ama stare sulle copertine e immolarsi al sacro altare del giornalismo. Anche perché poi questi “sacramenta” di imbrattacarte tendono sempre a parlare di sé piuttosto che del personaggi che hanno di fronte. Ma intervistare Maurizio Zanolla, in arte “Manolo” è difficile anche per ragioni di geolocalizzazione. Voglio dire: arrivare in Primiero è relativamente facile, il difficile poi è arrampicarsi su quel pendio al limitar del bosco, con i cilindri dell’auto “cittadina” che urlano di dolore. Senza contare che dobbiamo bussare a diverse porte prima di giungere alla sua.
Ma la cordialità con cui ci accoglie ripaga – noi e la nostra auto – di ogni sforzo. La sua è la tipica casetta che in tanti sognano, quando nei momenti di stress prefigurano una definitiva quanto immaginifica fuga dal mondo civilizzato. Soffitti bassi, cimeli e ammenicoli in ogni dove, un calore che ti avvolge e ti mette a tuo agio. “L’ho costruita con le mia mani” dice Maurizio, puntandoci addosso come laser quei due occhioni chiari. È non è certo un modo di dire. L’ha costruita veramente lui, pezzo per pezzo, con le sue… mani. Eccole qua le altre protagoniste di questo ritratto, la mani di Manolo: una propaggine dell’uomo, dell’anima e del cuore. Non due semplici arti di utilità, ma due coprotagoniste di una vita intera.
Stiamo parlando, di fatto, di uno degli inventori dell’arrampicata moderna. Di uno che nel 1978 ha aperto 28 vie in un mese. Di uno che a 54 anni suonati ha aperto una via di grado 9a e che a 59 anni ha ripetuto una via aperta nel 1981. Qui si parla di uno preciso, preparato, allenato. Uno degli unici quattro incidenti gravi li ha avuti in macchina. E non guidava lui.
E poi uno così è bello sentirlo parlare a prescindere, anche di grandi temi, come la vita e la morte. C’è nelle sue parole un’umiltà a tratti sconcertante che però non fa altro che rafforzare la dignità delle sue parole. E poi, sai che c’è? Che quel suo timbro grave, quella parlata nervosa, cadenzata ricorda, per lo stupore, la purezza e la lucidità, quella di Pier Paolo Pasolini. Che gli assomiglia pure un po’ fisicamente.

GRANDI, IMPONENTI, MISTERIOSISSIME MONTAGNE
Ci mettiamo a sedere, osservati di sottecchi dalla moglie, Cristina Zorzi, mentre con eleganza stira gli indumenti di famiglia. Tutti e due i coniugi Zanolla indossano un curioso berretto di lana d’ordinanza, quasi un marchio di riconoscimento. Ma cappelli a parte, la prima domanda ce la portiamo dentro sin dall’inziio del viaggio che ci avrebbe condotti fin lì: “Perché ti chiamano Manolo? O il Mago”. Maurizio allarga le braccia, come a dire “Cominciamo bene con questo…” e poi aggiunge di non dare alcuna importanza a quei soprannomi. Avrebbero potuto essere anche altri. “Forse qualcosa di peggio”, sorride.
Una delle curiosità della sua biografia è che i suoi genitori con la montagna non c’entrano proprio nulla. “Mio papà Giovanni Zanolla (1928-1998) l’ho visto davvero poco, è emigrato subito prima in Svizzera, poi in Africa, Libia, a lavorare in questi enormi cantieri”. La mamma Gemma Sampieri (1934-2014) era anche lei di Feltre, città dove Maurizio fa le scuole superiori professionali.
Appena preso il diploma di Maestro Birraio viene assunto al “Pedavena” di Feltre. Tuttavia dopo pochi mesi, il Nostro si rende conto che qualcosa non va. “Sì, diciamo pure che ne avevo piene le scatole. Non mi piaceva…” Così arrivano altri lavori, qua e là. Di stare chiuso in una frabbrica, lui proprio non ne vuole sapere.
Arriva il servizio militare e lì intuisce qualcosa. “Avevo già cominciato a scalare, così inizio a pensare ad un mio possibile futuro in qualche ditta di disgaggi o roba del genere”.
Ma facciamo dunque un passo indietro. “Ad un certo punto della mia vita, durante l’adolescenza, mi sono fatto una domanda… Avevo tutte queste montagne intorno a me, eppure nessuno mi aveva ancora parlato di loro. Tutti parevano ignorarle, i miei genitori in primis”. Una specie di complotto, come se parlare di montagne avesse potuto alterare in un certo senso ogni equilibrio familiare.
“Pensa che mio nonno non mi ha mai nemmeno nominato il nome della montagna sulla quale nasceva il torrente che lambiva la nostra casa”. Mamma Gemma aveva 17 fratelli e nessuno aveva mai nominato una sola cima. Erano solo contorni inesistenti. Come poteva non incuriosire il ragazzo questo silenzio reticente? Questa mancanza? Ecco, proprio una mancanza era quella che Maurizio avvertiva, un anelito sconosciuto che lo spingeva con il pensiero oltre il limite dei prati, dove il mondo pareva finire.
È nell’indole di ogni adolescente evadere da qualcosa, soprattutto se ti senti un po’ abbottonato in quei luoghi. Non hai un ambiente, una prospettiva “ti ritrovi in una piazza: la piazza in cui sono cresciuto nell’adolescenza è quella dove ho imparato molte cose… ad esempio pensare in termini collettivi con tutta la confusione e la rivoluzione di quegli anni. Fino a che ad un certo punto, dopo l’ennesimo ritrovo al bar, capita che ti venga un dubbio: Ma sto buttando forse via la mia vita?”

LA PRIMA VOLTA: LA PIETRA
È FRAGILE E PERFETTA
E fu così che quello che anni dopo diventerà uno dei più forti e innovativi scalatori di tutti i tempi imbocca il suo primo sentiero di montagna, sulle Vette Feltrine. Come è stata quella prima volta? “Affascinante. Perché a mano a mano che salivo ho visto che il territorio si deformava. Dall’alto tutto si confondeva, ogni punto di riferimento precedente era perduto. E poi le pietre…” Cioè? “All’inizio io le avevo viste con mio padre quando mi aveva portato in moto da parenti e mi era parso un caos… La seconda volta mi ha conquistato la perfezione di quelle pietre che però mi sono parse fragili. Fragili e perfette”.
Il passo successivo è stato quelo di metterci le mani su quelle rocce. Come per caso e chissà perché, Maurizio incontra uno, un certo Roberto, che stranamente non ha mai visto nei suoi giri in piazza. “Sai che c’è – gli fa quello una sera – domani si va a scalare”. “A scalare?!”
Fatto sta che in due ore la scalata è bell’e conclusa e a Maurizio è parsa la cosa più semplice di questo mondo. “Non capivo perché loro facessero tanta fatica… A me pareva talmente elementare… Ho pensato, vedrai che nei dintorni ci saranno pareti molto più difficili di questa…”
Maurizio capisce subito che scalare lo diverte, anche perché è come se lui quella roba lì l’avesse sempre fatta. Un talento naturale venuto dai meandri dell’inconscio, da misteriosi richiami ancestrali. da una dimensiome parallela.

IL BUSINESS? MOLTO MEGLIO
ARRAMPICARE
La prima idea che viene da questa esperienza è quella di farne un lavoro di questa strana “abilità”. Così, assieme ad un socio, Maurizio mette su una ditta di disgaggi e comincia a girare l’Italia. Il lavoro è tanto e ricercato. In tre o quattro anni l’azienda cresce, diventa un consorzio e lì Maurizio si ferma. Il business fine a se stesso di certo non fa per lui. O quanto meno non è quello che cerca.
Segue la strada della professione di guida alpina, comincia a fare da consulente per lo sviluppo di prodotti e attrezzature alpinistiche. Siamo nei primi anni Ottanta. Il turismo comincia ad affacciarsi in un modo nuovo. Sono anni poi in cui si sviluppa tantissimo la tecnologia dei materiali. “Le scarpe, la sostituzione dei chiodi… per l’arrampicata e per l’alpinismo in genere è stata una rivoluzione”.
Teniamo conto che Maurizio entra in questo mondo senza averne alcuna nozione. “Per me Messner o Bonatti potevano essere due ciclisti…”, scherza. La cultura si fa sul campo, come si suol dire. Poi è arrivata quella unica fatale reclame della Sector... “Era stato Rolly Marchi a propormi. Ci ha messo un po’ a convincermi... All’inizio io non volevo”.
“La cosa strana, che ancora oggi non riesco a capire è come un ragazzino di 16 anni si sia approciato alla montagna e prepotentemente abbia deciso di affrontarla in modo diverso. A me non interessava arrivare in cima a qualsiasi costo. Anche per questo ho rinunciato fin da subito ai chiodi…”

LA PRIMA SFIDA da SUPERARE?
LA PAURA. A 16 ANNI UNO
SI SENTE IMMORTALE
Già, i chiodi. Eccolo il punto. Uno scalatore che fa a meno dei chiodi è un po’ come un equilibrista che cammina sul filo senza la rete di sicurezza. Un azzardo. O l’inseguimento di una perfezione, chi lo sa. “Ovviamente non avevo ancora una preparazione da poter andare ovunque… Ma liberarsi da questo retaggio alpinistico mi è parso un passo da fare”, ammette.
E la paura? “Quella è stata la prima sfida da superare. Per quanto incosciente, la paura l’avvertivo. Come l’ho avvertita molto nitidamente durante la prima scalata”.
L’unico modo per non avere più paura è superarla. Esorcizzarla. Sebbene il limite tra coraggio e incoscienza sia, a quella età, davvero sottile; solo un budello che impedisce alle due sensazioni di coincidere, distruggendo la sensatezza di quello che si fa. “Certo dipende dall’età. A sedici anni uno non pensa certo a morire. Anzi. Si sente immortale”.
ARRAMPICARSI È UN GESTO
CHE CI PORTIAMO DENTRO
C’è qualcosa di primordiale nel gesto dell’arrampicata. E qualcosa di mistico, probabilmente. Pensiamo ai nostri progenitori pieni di peli che per sopravvivere dovevano arrivare lassù, dove si era rintanata la possibile preda. Ma pensiamo anche al bambino che si arrampica per varcare le arcigne sponde del lettino. Ma pensiamo anche al salire, all’elevazione fisica che si porta dietro – come in una cordata – quella metafisica.
“L’arrampicarsi è qualcosa che ci appartiene come esseri umani. Qualcosa che forse serve allo sviluppo percettivo
“Nel contatto con la roccia, la cosa che amo di più è la possibilità di trovarci un percorso. Non obbligato. Dove hai la fantasia e la creatività per andare avanti”. “È un po’ la metafora della vita?”, proponiamo. Maurizio precisa: “In una corsia in pista puoi correre all’interno di un corridoio tracciato. Su una parete tutto è aperto, la corsia devi disegnarla tu. E non è detto che sia possibile farlo… Poi, più vai avanti e più trovi stimolante l’addentrarti nell’impossibile”.
Il rapporto con la Natura, con la Madre Terra, per uno come Maurizio Zanolla, in arte Manolo, in arte Il Mago, è sempre stato importante. Fin dall’inizio. Un’importanza che però è cresciuta esponenzialmente col passare degli anni. “La Natura oramai mi appartiene perché ho trascorso una vita in Lei”.

“La Natura? stiamo andando in una direzione sbagliata”
Donald Trump ha recentemente rigettato molte tesi ambientaliste sposate dalla precedente Amministrazione. Cosa ne pensi? “Sono pessimista. Mi rendo conto che ho due figli e dovrei cercare di non esserlo, ma… Della Natura non possiamo farne a meno e invece mi pare che stiamo andando in una direzione sbagliata”.
E a livello locale? Non trovi eccessiva una certa promozione turistica che tende oramai a portare i turisti direttamente in vetta attraverso comode modernissime funivie o asfaltando strade di montagna fino all’uscio del rifugio. Maurizio non si scompone nemmeno un po’. “È tutta una questione di compromessi”, dice. “Io non ho una preparazione per pronunciarmi su questo, anche se mi rendo conto che ciò che dico può essere importante per qualcuno. Sono contrario, ovvio che lo sono. Come sono contrario ad esempio all’eccessiva chiodatura delle falesie e delle vie. Quando ho cominciato non avrei immaginato che si sarebbe arrivati alle pareti in plastica e alle Olimpiadi, con le competizioni…”.
Chiediamo a Manolo se lui ci pensava a queste competizioni o se ha sempre pensato all’arrampicata come a una sfida solitaria. Ci risponde che prima di misurarsi con gli altri bisognerebbe imparare a farlo con se stessi. Questa è un’attività che ti mette davanti alla tua nudità. La montagna ti spoglia mentre sali. Sempre di più. E ti permette di guardarti in una dimensione da cui non puoi più fuggire.
Pensiamo alle centinaia e centinaia di ragazzi che praticano l’arrampicata sportiva e chiediamo a Maurizio se si rende conto di essere stato lui a provocare quel movimento. Lui fa un’alzata di spalle e ci dice che se non fosse stato lui lo avrebbe fatto qualcun altro. Disarmante. “La cosa bella – aggiunge – è che tanti ragazzi possono sperimentare qualcosa di diverso rispetto alla vita alienante che spesso si fa in città”. O davanti ad uno smartphone…

QUELLA VOLTA in tv, DALLA BIGNARDI: DUE MONDI DIVERSI A CONFRONTO
Già gli smartphone. Oggi si pensa di godere di una libertà che in realtà non c’è. Sono due mondi diversi. Ed è a questo punto dell’intervista che ci torna alla mente la puntata delle “Invasioni barbariche” in cui un disorientato Manolo entra nello studio milanese e si sottopone alla raffica di domande di Daria Bignardi. Solo che domande e risposte spesso non sono coerenti. “Mi hanno chiesto di tornare, ma ho detto di no… Quello mio e quello della trasmissione erano mondi troppo diversi”.
Forse chi non vive certe cose non le può comprendere. “Diventa anche difficile spiegarle… vedi, di fronte a certe situazioni la cosa migliore sarebbe: Vi dico quello che volete sentirvi dire e finiamola lì. A volte mi rendo conto di essere vagamente controccorrente”.
Ti viene mai il timore che qualcuno voglia farti passare un po’ da clown a fini mediatici? La risposta è perentoria: “Credo sia una sacrosanto diritto di tutti pensare ad uno scalatore come ad uno scemo, ma potrebbe benissimo anche essere il contrario; forse sono solo punti di vista. Di sicuro scalare le montagne almeno non fa male agli altri”.
Sai che c’è? Che questo e altri concetti espressi da Maurizio contengono un non so che di rivoluzionario. Ma rivoluzione è una parola che lo spaventa un po’. “Più che altro sono concetti anacronistici, se pensiamo che vengono espressi in questo presente che assomiglia tanto a una diligenza impazzita, con i cavalli che corrono a perdifiato e nessuno sul predellino. Sono andati via tutti. Il posto di comando è vuoto. È questa la cosa pazzesca”.

“IO un SOPRAVVISSUTO? Sì, CI VUOLE TANTA, TANTA FORTUNA. E preparazione”
È lunga la storia di Manolo. E sono tanti i compagni di cordata che non ce l’hanno fatta e oggi non possono essere qui a raccontare la loro storia, così come sta facendo lui. Gli domandiamo se si sente un po’ un sopravvissuto. “Assolutamente sì. Tutta questione di fortuna. Bisogna essere fortunati. Mi sentirei un arrogante se fossi convinto di essere uscito da certe situazioni semplicemente perché ero preparato o bravo. Perché non potrò mai sapere quanto sottile è stato quel filo che mi ha tenuto su. Sarebbe bastato un attimo, forse, e io non lo saprò mai”.
Ma la Natura può tradire? “No, lei non tradisce mai. Bisogna solo avere la consapevolezza che entrando in quei luoghi devi accettare un certo Destino. Se qualcuno cade e muore non può c’entrare la Natura. Evito sempre quelle stupide tavole rotonde che si fanno subito dopo qualche incidente in montagna, trovo irrispettoso il fatto di non accettare che uno abbia la libertà di muoversi in quell’ambiente. Oggi siamo arrivati al punto che se non mi porto dietro il telefono sono una specie di coglione. Ma lasciatemi libero! L’ho scelto io di andare senza telefono, di mia spontanea volontà. Non penso che inciderò più di tanto sul Servizio Sanitario… Sicuramente meno di tutti gli incidenti di sci…” una risata prova ad allentare la tensione che l’argomento sta provocando.
Una cosa è certa: bisogna essere preparati. Oggi purtroppo sono in troppi quelli che passano qualche ora davanti ad un computer e si sentono pronti per affrontare qualsiasi impresa. Magari senza guardare nemmeno il Meteo. La tecnologia ti dà un sacco di false sicurezze, se non la sai gestire bene... “Ricordiamoci che in montagna basta mettere il piede in un modo sbagliato sul sentiero per far sì che quella diventi l’ultima cosa che fai in vita tua…”
Diamo un’occhiata ai nomi delle vie aperte da Manolo. Definirli originali è troppo poco. Può essere un libro (“Il Mattino dei Maghi”), può essere un inno alla diversità (“Rudolf Nurejev”). Ma quando concepisci il nome da dare alla via? “Potrebbe essere in ogni momento, durante, prima… O poco dopo averla completata”.

“L’unica cosa non garantita? il ritorno…”
Qual è il tuo rapporto con la forza di gravità? “L’avverti subito. È implacabile, purtroppo. L’arrampicata a differenza di altre discipline si caratterizza per questo, per questa inesorabile attrazione verso il basso. Una forza da contrastare durante tutta la salita, ti senti calamitato. Ma questo è anche il bello dell’arrampicata”.
La prima cosa arrivato in cima? “In alcune situazioni, dovevo concentrarmi sul ritorno… In montagna essere in cima non significa essere già a casa”.
E mentre sali cosa pensi? “Intanto bisogna raggiungere una situazione ottimale per partire. Devi rilassarti, ma non troppo. Trovare una fluidità, una quiete mentale. Non è facile e non è per tutti. La montagna è aperta a tutti, ma non è per tutti. La mente può permetterti di arrivare, ma può anche paralizzarti”.
Sul biglietto con cui l’esploratore Ernest Henry Shackleton cercava marinai per tornare in Antartide c’era scritto: “L’unica cosa non garantita è il ritorno…” Nell’animo umano c’è una spinta verso l’ignoto, verso il pericolo, verso i posti più lontani, profondi, ripidi.
Forse anche passare una vita dietro una scrivania può essere pericoloso, suggeriamo... “Potrebbe essere, magari un po’ meno”, conclude Manolo.
Un’ultima domanda: “Come ti vedi da vecchio?”. “Mi sto già vedendo. A parte gli scherzi. Se continuo a peggiorare con la rapidità degli ultimi anni, male…” Certo, il fisico sta cominciando a presentare il conto. Aveva provato ad avvisare, a consigliare, ma questi mai veniva ascoltato. E poi, un corpo umano non è certo programmato per fare le cose che quest’uomo ha fatto (e ancora fa) nella sua vita.
E nemmeno per pronunciare parole di una saggezza tanto antica, granitica, umile e vera. ν